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giovedì 2 dicembre 2010

Gino Paoli



E’ un signore di oltre settant’anni benissimo portati. I baffi e i capelli sono bianchi da un po’. Da qualche anno, grazie a un piccolo intervento chirurgico, ha pure smesso gli occhiali che portava fin da ragazzo per correggere la miopia da talpa (nei primi anni della sua carriera erano spessi e con una montatura nera che non passava inosservata). Il piccolo cambiamento, da parte di chi non ha mai badato al look, dà al personaggio un tocco di novità. Per il resto, rimane attaccato alle cose in cui ha sempre creduto: l’amore, la libertà, il dubbio. E continua a fare con passione il mestiere del cantautore, quello di chi trova le parole giuste e le coniuga con la musica per poi cantarle, come fanno gli artigiani che producono pezzi unici e non in serie, che sta a noi saper usare se ne condividiamo le sensazioni che sprigionano.
Compone e canta da oltre cinquant’anni (per la precisione: “La gatta” è del 1960 ma le prime incisioni di pezzi non suoi sono del 1959). Ora canta perfino meglio. La voce è piena, ha le tonalità giuste ed emoziona. Per questo può scegliere di cantare le arie di Giacomo Puccini, autore per cui ha da sempre una certa predilezione, come nel caso di “O Soave fanciulla” tratta dalla “Bohème”, interpretata in duetto con il soprano italo-canadese Giorgia Fumanti per fare da colonna sonora alla presenza italiana all’Expo di Shanghai 2010. O può decidere di girare nei teatri con il progetto “Cinema Songs” che ha a disposizione un cast d’eccezione: Gino Paoli (voce), Rosanna Brandi (voce), Marco Tamburini (tromba), Marcello Siringano (violino), Franco Testa (contrabbasso) ed Ellade Bandini (batteria) e Danilo Rea (pianoforte). Si tratta di un viaggio alla riscoperta delle grandi canzoni legate al cinema di ieri e di oggi: dai musical americani, alle canzoni dei film francesi fino a quelle del cinema italiano. Tutto questo dopo aver inciso nel 2008 il cd “Milestones. Un incontro in jazz” con Enrico Rava, Danilo Rea, Roberto Gatto, Flavio Bolto, Rosario Bonaccorso, frutto di tanti concerti dove Paoli ha presentato alcune sue canzoni in versione jazz ma ha pure interpretato, in ottimo inglese, pezzi come “Time After Time” e “I Fall In Love Too Easily” (qualche volta al piano ad accompagnarlo c’era Renato Sellani). Esempi recenti che dimostrano come Paoli, oltre a essere cantautore impareggiabile, è un interprete di prima qualità che sa sperimentare strade artistiche nuove. Pochi sanno presentarsi al pubblico, in teatro o in tv, con la sobrietà, il distacco e l’eleganza che gli sono abituali.
«Io all’inizio non sapevo nemmeno cosa volesse dire cantare, e certo era un handicap. La tecnica ti permette di dire ciò che hai dentro, ma non è quella che ti cambia. Se non ti aiuta a essere quello che vuoi essere, non serve. Ho imparato a cantare maturando, conoscendo e conoscendomi sempre di più, anche se non sarà mai possibile conoscermi completamente. Così ho potuto sempre meglio suonare le mie corde umane. Finalmente ho imparato a suonare me stesso», ha spiegato lo stesso Paoli in una conversazione con Enrico De Angelis (2004) a proposito della magia della sua voce cresciuta nel tempo.
Gino Paoli è il decano in piena attività della musica leggera italiana. Appartiene alla categoria di coloro, e sono pochi naturalmente, che si sono tolti quasi tutti gli sfizi sia nella vita pubblica sia in quella privata. Ha saputo pigliarsi anche numerose rivincite. Tutti hanno dovuto prendere atto che la bravura di Paoli non si discute. Ha dovuto piegarsi anche l’industria del disco, che a un certo punto voleva trattarlo come un cantante di revival e rifiutava di fargli incidere nuove canzoni. Pure la pubblicità è andata a cercare il maestro della canzone. Prima una marca di whisky, e lui ha accettato perché non gli pareva vero che lo pagassero per bere il liquore che più gli piace. In seguito è stata la Fiat, quando doveva lanciare la nuova Cinquecento, a chiedergli di apparire negli spot. Lui ha di nuovo accettato perché il ricordo delle prime Cinquecento nell’Italia del boom economico finiva per intenerirlo. Eppure Gino sa difendersi dai ritmi vorticosi dell’industria della musica: «Oggi è tutto così veloce che non ci accorgiamo neppure di quello che stiamo vivendo. Io, invece, voglio accorgermi di ogni cosa: dell’affetto dei miei figli,
della dolcezza di mia moglie, degli amici che mi circondano,
voglio guardare il mare... voglio accorgermi di vivere». E per spiegarsi meglio ha usato una canzone, “Perduti”, che chiude il cd “Per una storia” (2000): una coppia è bloccata in macchina nel traffico caotico di Genova; piove, sono in ritardo per un appuntamento, stress, nervosismo, rumore... ma basta che lui si volti a guardarla perché tutto cambi.
Anche la politica, a un certo punto, è andato a cercarlo. Paoli è stato deputato del Pci dal 1987 al 1992, eletto come indipendente nella circoscrizione di Napoli (città che ama quasi come Genova), prima di tornare sopra un ramo a cantare le sue canzoni perché la politica politicante non si addiceva a chi dichiara tuttora di non sapere, di avere il dubbio come unica certezza e di preferire che a ogni domanda ne segua un’altra (“King Kong”, 1994, è il cd del ritorno esclusivo al culto della musica). Le sue proposte per tutelare gli autori, diffondere la musica nelle scuole e nelle carceri minorili non furono accettate alla Camera dei deputati. C’erano altre urgenze gli dissero, come se la musica non aiutasse a sviluppare sensibilità nascoste e non fosse un linguaggio universale. E’ tornato alla politica solo per un breve periodo come assessore alla cultura nel comune di Arenzano, pochi passi da Genova. E qualche volta gli capita di ricordare i fatti del luglio 1960, quando la città della Lanterna si ribellò al congresso del Movimento sociale che doveva tenersi proprio a Genova: forse il primo incontro più consapevole di Gino con la politica.
Paoli ha scritto canzoni che resteranno nel patrimonio della musica leggera non solo italiana (“Senza fine”, il ritratto di Ornella Vanoni dopo il primo incontro, ha fatto il giro del mondo e figura nel repertorio di molte orchestre). Ha superato la boa dei cinque decenni passati sui palcoscenici e nelle sale d’incisione. Ha partecipato per scelta solo a cinque Festival di Sanremo (1961 con “Un uomo vivo” in coppia con Tony Dallara, 1964 con “Ieri ho incontrato mia madre” cantata con Antonio Prieto, 1966 con la “La carta vincente” cantata con Ricardo, 1989 con “Questa voltano” e nel 2002 con “Un altro amore” classificatasi al terzo posto). E due volte ci è andato solo per fare un piacere a due amici: Adriano Aragozzini nel 1989, Pippo Baudo nel 2002 (eh sì, non sa dire di no agli amici). Ma nel 2004 ha vinto il Premio alla carriera che gli è stato consegnato sul palco dell’Ariston senza dargli nemmeno il microfono per dire due parole, e nel Festival precedente aveva fatto parte della “giuria di qualità”. Nel 2009 è tornato a Sanremo per duettare con Malika Ayane e farle da “padrino”.
Paoli come interprete ci ha fatto conoscere le canzoni di Manuel Serrat, Jacques Brel (la splendida “Non andare via” è la traduzione di “Ne me quitte pas”), Piero Ciampi, Leo Ferré (“Col tempo” è la versione di “Avec les temps”), Alain Barrière, Pablo Milanes e Charles Aznavour (“Devi sapere”). Quelle di Georges Brassens non le mai incise, anche se il cantastorie francese è stato il suo primo ispiratore e Paoli, adesso che si è tolto le lenti, gli assomiglia perfino un po’ con gli stessi baffi bianchi. Ha aiutato a muovere i primi passi canori a Luigi Tenco, Lucio Dalla, Fabrizio De André e Zucchero, tra gli altri. Ha dato una mano a Umberto Bindi, mentre l’Italia bacchettona e omofoba cercava – come poi è avvenuto – di buttare nel cestino l’autore di “Il nostro concerto” perché non celava di essere gay.
Quando ha festeggiato le quattro decadi di carriera, si è esibito al Teatro dell’Opera di Roma rompendo la sacralità di quel luogo destinato solo alla musica colta. Per l’occasione, era accompagnato da un’orchestra sinfonica che poi lo ha seguito in un giro di concerti. Possiede anche alcuni record curiosi: ha fatto il primo videoclip a colori italiano con “La gatta” (1961, regia di Vito Molinari) e ha inciso nel 1965 il primo 33 giro “live” per la Rca (“Gino Paoli allo Studio A”). Ha scritto canzoni per il film “Prima della rivoluzione” (1964) di Bernardo Bertolucci (“Vivere ancora”, piccolo gioiello, viene da lì), per lo spettacolo teatrale “Emmetì” (1966) di Luigi Squarzina e per alcuni film interpretati da Stefania Sandrelli (“Una lunga storia d’amore” ha questa genesi, è stata scritta infatti per “Una donna allo specchio”, film del 1984). Tra i primi arrangiatori dei suoi dischi ha avuto perfino il maestro Ennio Morricone, premio Oscar alla carriera, che rimase subito colpito dalla genialità di alcuni testi che rivoluzionavano lo stile della canzone e della musica leggera italiana. E tra le curiosità c’è anche un “musicarello” datato 1965, “Questo pazzo, pazzo mondo della canzone” (regia di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi), dove Paoli canta “Vivere ancora” e Luigi Tenco “Io lo so già”. E bisogna ricordare una canzone come “Coppi” (1988), dedicata a Fausto Coppi, il mito dello sport a due ruote.
Cos’altro chiedere alla carriera, per chi ha iniziato come pittore e disegnatore pubblicitario tra i carruggi di Genova (tra Pegli, Boccadasse e la Foce non poteva che nascere “Sassi”) e in seguito si è trovato a fare il capostipite dei cantautori genovesi pur essendo nato a Monfalcone (1934) e trapiantato in fasce nel capoluogo ligure? La canzone è stata per Paoli la maniera di esprimere desideri, domande, melanconie, emozioni, ribellioni e chiedersi dei perché. Lui ha usato le canzoni per comunicare. Lo ha fatto per caso, come gli amici di gioventù che poi avrebbero scelto la stessa via artistica (Bindi, l’unico musicista convinto, Lauzi, Tenco, De André). Paoli, all’inizio, lo ha raccontato tante volte, scelse di cantare e comporre canzoni solo perché lo pagavano meglio che come grafico (occupazione che non ha lasciato di fronte ai primi successi che riteneva potessero essere effimeri). Solo in seguito ha scoperto che quello era il suo mestiere. Poi, ancora, ha regalato canzoni agli altri come fossero degli utensili. E noi continuiamo a usarle e a canticchiarle. Ci fanno compagnia.
Genovese al cento per cento, malgrado sia nato a Monfalcone, Friuli Venezia Giulia, da padre toscano, ingegnere navale (da cui ha ereditato una piccola tenuta dalle parti di Bolgheri dove gli piace passare molto tempo occupandosi della campagna e della produzione di olio) e madre giuliana. Molti dei suoi congiunti furono coinvolti nell’esodo dalla Dalmazia dell’immediato dopoguerra e alcuni persero la vita durante le operazioni di pulizia etnica (le foibe) compiute dai reparti militari jugoslavi. Da qui la scelta di Aldo e Rina, i genitori di Paoli, di trasferirsi a Genova, nel quartiere di Pegli, in via Vespucci 31.
Ha raccontato a questo proposito Paoli, che ha preso il nome dal nonno Gino: «Mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi a Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata. I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata. Per questo mia zia odiava gli jugoslavi; e per me è stata una bella sorpresa, da adulto, andare per la prima volta in Jugoslavia e scoprire che non erano affatto tutti così. E’ la guerra che rende l’uomo atroce; per questo io odio la guerra. Una parte della nostra famiglia è finita nelle foibe e di queste cose per decenni non si è parlato. E la sinistra porta una responsabilità culturale, perché il partito doveva coprire la connivenza dei partigiani rossi con la strategia di Tito. Vedrai che ci vorrà un altro mezzo secolo perché le passioni si spengano e se ne parli liberamente. Atrocità hanno commesso anche gli alleati che risalivano l’Italia. Le truppe d’assalto avevano il diritto, riconosciuto per iscritto, di saccheggiare e stuprare: e le truppe d’assalto erano per gli americani i neri, per i francesi i marocchini, per gli inglesi gli indiani. Le conseguenze le hanno patite le donne italiane, finché queste truppe non si sono attendate al Tombolo, in Toscana, in un accampamento frequentato da femmine alla disperata ricerca di cibo, finché non sono arrivati gli americani ad arrestare tutti. Io stesso dovetti scendere dal treno che ci riportava a Genova e passare tra le macerie di Recco distrutta dal bombardamento alleato – non avevo ancora dieci anni – camminando tra due pile di cadaveri. E’ un ricordo indelebile» (intervista al “Corriere della Sera”, 21 dicembre 2005).
E sempre a proposito di Monfalcone, quando quel Comune lo ha premiato nel corso di una manifestazione nell’ottobre 2009, Paoli ha dichiarato: «Il mio sogno? Trasformare la storica residenza della mia famiglia monfalconese, in via Roma 40, in una Casa della musica. Strappare quell’edificio al degrado e all’abbandono e farne un luogo di cultura per tutti. Potrei fare da testimonial e promuoverla in giro per l’Italia, perché io, Monfalcone, me la porto dentro sempre, da tutta la vita». Quanto ad essere l’unico sopravvissuto della sua famiglia d’origine, Gino ha usato parole piene di significato: «Un uomo non diventa un uomo se non quando muore suo padre. E’ stato quando ho saputo che se ne era andato, che me ne sono accorto. Sono rimasto l’ultimo della fila. Mi volto indietro e non c’è più nessuno. La sensazione di avere le spalle scoperte ha cambiato davvero qualcosa nella mia testa».
Paoli va a vivere da solo a diciotto anni. Non ama gli studi, a differenza del fratello Guido che diventerà un fisico affermato dopo aver tentato di fare il musicista. Gino vuole fare il pittore, un po’ più tardi trova lavoro come grafico. Ma ha amici come lui che vogliono esprimere le proprie idee e che ha un certo punto scelgono il linguaggio della musica: Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Umberto Bindi, Joe Sentieri, Giorgio Calabrese, i fratelli Gian Piero e Gianfranco Reverberi. E saranno proprio quest’ultimi a portare Paoli a Milano per una audizione alla Ricordi. Con la direzione artistica di Nanni Ricordi, Gino realizza i primi 45 giri nel 1959 (“La tua mano”, “Non occupatemi il telefono”, “Senza parole”, “Sassi”). Non hanno grande riscontro. Il paroliere Mogol gli fa da prestanome perché Paoli non è ancora iscritto alla Siae, la Società degli autori. La svolta arriva quanto Mina decide di interpretare quel capolavoro che è “Il cielo in una stanza”. E’ così ottiene la prima rivincita, dopo che in molti gli avevano detto che le sue non erano canzoni.
Quando Nanni Ricordi passa alla casa discografica Rca, si porta dietro Paoli che nel 1963 incide “Sapore di sale” e poi “Che cosa c’è”. Nel 1961 aveva scritto, dedicandola a Ornella Vanoni, “Senza fine”. Ma il successo non è solo rose e fiori. Paoli pensa di avere conquistato tutto, per questo tenta il suicidio nel 1963, proprio quando è al massimo della popolarità. E’ subito dopo che scrive “Sapore di sale”.
Certo, ci sono stati altri momenti di crisi. Come alla vigilia del 1968, quando le canzoni di Paoli – anche per colpa di un suo sbandamento esistenziale – non incrociavano il gusto del pubblico, le sensibilità politiche del momento e lui si acconciò per qualche tempo a fare l’oste a Levanto. O come quando le case discografiche gli proponevano di incidere solo i vecchi successi degli anni Sessanta e Paoli rifiutò per orgoglio, convinzione e perché sapeva che alla lunga avrebbe vinto lui. C’è stato infine il primo grande ritorno, prima in una serata al Pincio, a Roma, nel 1975 come ospite d’onore della festa dei giovani comunisti organizzata da Gianni Borgna, Goffredo Bettini e Walter Veltroni. Poi ancora in una esibizione con Ornella Vanoni nel Festival dell’Unità di Roma del 1984, a cui seguirono una fortunatissima tournée e un disco da collezionisti (“Insieme”). Sulla pista del Velodromo che aveva ospitato le Olimpiadi del 1960, Gino cantò qualche pezzo con la Vanoni, poi prese il microfono da solo e disse: «Ho dei pezzi nuovi che non mi fanno incidere. Ve ne canto due». Erano: “Averti addosso” e “Una lunga storia d’amore”
Dopo alcuni anni di silenzio, Paoli era già tornato sulle scene nel 1971 con una trilogia di album incisi per la Durium: “Le due facce dell’amore”, “Rileggendo vecchie lettere d’amore”, “Amare per vivere”. In quei primi anni Settanta, Paoli si afferma anche come editore musicale grazie all’acquisizione dei diritti dei successi dei Bee Gees. Il riscontro di critica lo spingerà successivamente a pubblicare altri 33 giri: “I semafori rossi non sono Dio”, “Ciao, salutime un po’ Zena”, “Il mio mestiere” (33 giri doppio, mai rieditato purtroppo in cd) e “Ha tutte le carte in regola” con pezzi di Piero Ciampi.
Dall’esibizione al Velodromo di Roma nel 1984 e dalla successiva tournée con la Vanoni in avanti, Paoli è restato sul piedistallo e non l’ha più abbandonato. Ha inciso dischi ogni volta che gli è venuta la giusta ispirazione, è tornato in hit parade nel 1991 (“Quattro amici al bar”), ha tenuto innumerevoli concerti, ha partecipato alle trasmissioni televisive che gli pareva. Poi una nuova tournée nel 2005, ancora con la Vanoni per ricantare l’amore e lanciare il disco “Ti ricordi? No, non mi ricordo” (preziosa nel cd la collaborazione di Sergio Bardotti, un grande della canzone che non ce più).
Nella vita personale la fortuna è stata eguale. Paoli si è accompagnato con alcune delle donne più belle degli anni Sessanta. Si è avvicinato alla morte sparandosi una pallottola che è rimasta a fargli compagnia tuttora a pochi centimetri dal cuore. Si è sposato due volte (con Anna Fabbri e Paola Penzo che gli sta vicino da oltre trent’anni, anche se il primo incontro risale alla fine degli anni Sessanta, a cui ha dedicato nel 1988 quella inimitabile dichiarazione d’amore che è “Questione di sopravvivenza”) e ha avuto quattro figli. Giovanni con la prima moglie, Amanda con Stefania Sandrelli (Giovanni e Amanda hanno vissuto da bambini per qualche anno insieme), Nicolò e Tommaso dalla seconda moglie (in “Cosa farò da grande”, Gino dichiara di essere più sprovveduto dei suoi figli di fronte alla vita). Da parecchi anni è diventato nonno e ha sempre dichiarato che la sua famiglia è composta da tutte le persone che ha amato e che ama perché gli amori non finiscono mai, semmai si trasformano (di solito, forse per ribadirlo, indossa due o tre fedi nella mano sinistra).
Paoli, dopo cinquant’anni di carriera (il doppio cd “Senza fine” inciso per l’occasione nel 2009 reca un interessante dvd: non stralci di vecchie interviste o di concerti rimontati ma la famiglia ristretta chiamata a dire la sua insieme alla famiglia allargata: la moglie Paola Penzo e i quattro figli, Zucchero, Renzo Piano, Gianni Borgna, Ornella Vanoni), espone il viso segnato dalle rughe che sanno di vita vissuta e di lupo di mare (il mare è sempre presente nelle sue canzoni). Ora è un artista che ha fatto pace con se stesso, oltre che con l’amore, le donne e la quotidianità ma sa graffiare ancora come i gatti che ama. Per questo, si è concesso il ritorno sulle scene con Ornella Vanoni. E’ la conferma dell’amicizia e della stima rinnovatesi a due decenni di distanza dalla prima tournée. Si sono amati all’inizio degli anni Sessanta, in seguito si sono detestati, poi c’è stato un percorso che ha elaborato la separazione e li ha fatti rincontrare. «Il fatto che noi per molto tempo non ci fossimo frequentati, non ci fossimo visti, non ci fossimo parlati ci procurò un danno», ha raccontato Ornella.
Guai, però, a pensare che Paoli abbia rinunciato alla sua vena contestatrice. Basta ascoltare “Se”, il cd uscito nel 2002, per rendersene conto. “Niente di nuovo a Est” e “Se la storia siamo noi” – o “Matto e vigliacco”, cd di qualche anno prima – sono canzoni contro la guerra, tutte le guerre, quelle giuste e quelle ingiuste, e contro chi non pensa con la propria testa. E, naturalmente, ci sono state altre canzoni d’amore. Anche queste, come sempre, non banali. Per Paoli, l’amore assomiglia a un teorema privo di soluzione: è vetrina di sentimenti e emozioni, uguaglianza e non possesso, condivisione e non solo progetto, confidenza e passione assieme. Per questo, può durare un giorno, un mese, un anno o tutta la vita come canta nell’ultimo disco con la Vanoni (“Io non t’amerò per sempre” è una bizzarra e assai sincera dichiarazione d’amore). Per questa originalità, Gianni Borgna (autore nel 2005 del libro “Gino Paoli. Una lunga storia d’amore” dove ha raccolto i testi delle canzoni di Paoli accanto a un dvd) lo ha definito «L’Ungaretti della canzone italiana».
Gino non ha mai nascosto una certa venerazione per alcuni poeti, liguri soprattutto: Eugenio Montale, Edoardo Firpo, Giorgio Caproni. Una volta gli hanno fatto incontrare a sorpresa Caproni, genovese di adozione come Paoli, in una “Domenica in” condotta da Mino Damato e lui non ha saputo trattenere l’emozione. Attenzione però a dirgli che poesia e canzone sono la stessa cosa. Ha dichiarato Gino: «Caproni, Sbarbaro e Montale. Nel 1961 feci uno spettacolo con un attore che recitava le loro poesie. Oggi nessuno legge più. Sono convinto che la poesia debba essere divulgata e che la canzone può mettersi al servizio della poesia. Allora sì che il collegamento poesia e canzone diventa un fatto generoso e bello. Per esempio, accosterei la mia “Sassi” con “La casa dei doganieri” di Montale. Con Leopardi mi sentirei più imbarazzato».
La coerenza dello stile e dell’immaginario di Paoli (la parola “coerenza”non gli piace ma in questo caso è quella giusta) lo si ritrova proprio in “Ti ricordi? No, non mi ricordo”, il disco inciso per l’appunto con la Vanoni. In tempi di nuove guerre e nuovi terrorismi (l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001), la scommessa era tornare a parlare di amore tra uomini e donne, tra persone che dialogano con altre persone e con la realtà che le circonda pensando che “se il mondo fosse simile a te – come recita una canzone del cd tradotta da testo e musica dei brasiliani De Moraes e Jobim – ci starei meglio, si correrebbe di meno, si guarderebbe più il cielo…”. Tra le canzoni di quel cd (c’è una versione in dvd di un concerto di Paoli e Vanoni tenuto ad Assisi), spiccano “Fingere di te”, “Boccadasse” (località genovese dove Gino viveva su una mitica terrazza in compagnia della famosa gatta della canzone), “Una parola”. Disco e tournée, in quel caso, sono stati anche la maniera giusta di festeggiare due compleanni numero settanta (Ornella è nata il 22 settembre 1934, Gino il giorno dopo dello stesso anno: un segno del destino). Paoli e Vanoni, per l’occasione, si sono pure raccontati in un libro-conversazione con Enrico de Angelis (“Noi due, una lunga storia”, Mondatori, 2004). E tra i libri dedicati a Gino bisogna ricordare: “Paoli, sapore di note”, scritto in collaborazione con il figlio Giovanni (Editori Laterza, 2005), “Il mio fantasma blu” dove Paoli conversa con Cesare G. Romana e Liliana Valvassori (Sperling & Kupfer editori, 1996) e quello scritto dall’amico di sempre Arnaldo Bagnasco, genovese pure lui, “Paoli” (Franco Muzzio Editore, 1989).
Dove sta il segreto di Gino Paoli? L’uomo e il cantante non sono facili al primo impatto. Lui è consapevole che gli hanno cucito addosso per tanti anni la fama di scontroso e irritabile (un po’ lunatico di sicuro lo è, almeno come tutti i liguri, anche quelli di adozione). Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, al Cantagiro del 1963 a Salerno, per reazione a qualcosa che non gli era piaciuta nel comportamento del pubblico cantò quasi interamente voltandogli le spalle al pubblico. Il 26 settembre 2004, tre giorni dopo il suo settantesimo compleanno, Paoli ha scritto sul suo sito internet: “L’affetto che ho sentito venire verso di me in quest’occasione mi ha stupito (in fondo mi considero un antipatico e polemico rompicoglioni) e mi ha fatto sentire al caldo. Grazie a tutti”.
L’uomo, checché se ne dica, si è sempre concesso agli altri quando c’era una giusta causa da difendere, anche se a lui non piacciono le bandiere e le verità di una parte sola. Ha aiutato Emergency di Gino Strada, ha cantato contro l’embargo economico a Cuba, ha organizzato concerti per la popolazione colpita da un’alluvione a Stava, è stato testimonial di una campagna contro le mine da guerra. Lo ha sempre fatto con parsimonia, discrezione, contro le mode, fuori dai branchi che non frequenta.
Poche volte ha pure fatto l’opinion maker, come nel 1991 quando “L’Espresso” gli dedicò la copertina con il titolo “L’amore al tempo di Andreotti” e l’occhiello: “Sorpresa d’agosto. L’Italia del malessere canta Gino Paoli. Perché?” (era l’anno dell’exploit di “Quattro amici al bar”). L’autore del reportage era Ferdinando Ador nato, che voleva capire perché nell’Italia che cambiava solo due persone non avevano abdicato: Giulio Andreotti nella politica e Gino Paoli nella musica. Tre decenni dopo, con un ribaltone, Adornato è diventato prima deputato di Forza Italia e poi dell’Udc, Andreotti vive nell’ombra mentre Paoli è ancora lì in prima fila a dimostrare che ha sette vite, come gli amati gatti che per lui sono gli animali più liberi che ci siano. L’autore di “Il cielo in una stanza”, “Che cosa c’è”, “Sapore di sale” appartiene ormai alla storia d’Italia, alla traiettoria degli italici sentimenti e costumi nazionali.
La spiegazione della durata artistica di Paoli sta nel suo stile, rimasto uguale negli anni, capace di rinnovarsi nelle sonorità e negli arrangiamenti grazie a raffinati collaboratori in epoche diverse come Michele Torpedine, Beppe Vessicchio e gli inseparabili Adriano Pennino e Aldo Mercurio che suonano con lui da un numero imprecisato di anni. Una canzone di Paoli, il buon intenditore, sa riconoscerla dal giro armonico, dalla costruzione musicale, dalle parole che esprimono un immaginario preciso. Per questo, non si contano più le generazioni che si sono innamorate, divorziate, riconciliate e arrabbiate con le sue canzoni.
Di Umberto Bindi dice “era un grandissimo musicista”, di Bruno Lauzi “la pensavamo all’opposto ma la nostra amicizia non si è mai interrotta: lui era un uomo coraggioso, mi manca”. Proprio su Lauzi resta memorabile il passaggio di una intervista: «Quando Lauzi sostiene d’essere stato dimenticato dal Premio Tenco perché vota a destra dice la verità. Prova ne è che litigai con gli organizzatori perché non volevano saperne di dare il premio alla carriera a Charles Trenet. Mi dissero che era impossibile perché Trenet aveva sostenuto il governo di Vichy. Eppure lui era e resterà il numero uno del cantautorato, il massimo assoluto per parole e musica. Meglio di Brassens e di Cole Porter. E’ come non leggere “Viaggio alla fine della notte” di Céline, opera fondamentale della letteratura moderna, perché era fascista. A me che uno sia comunista o musulmano della jihad non importa: mi interessa l’opera» (“Corriere della Sera”, 28 ottobre 2001). Di Luigi Tenco ha il rammarico della rottura di una amicizia importante per «questioni di donne» prima del suicidio del 1967 (con Lauzi, Tenco e altri due amici avevano formato da ragazzi la band “I diavoli del rock’n’roll”). Ha definito “Sassi” la sua più bella canzone. Ha spiegato il proprio metodo di lavoro: «Butto via molto, parole e musica non devono mai concludersi nella costruzione ma devono lasciare soluzioni aperte». Ha raccontato della scoperta della musica di George Brassens a metà degli anni Cinquanta, dell’ammirazione per Jacques Brel, della conquista di una maggiore teatralità a cui ha contribuito l’esecuzione di “Albergo a ore”. Ha precisato che il suo rapporto con il pubblico è una sorta di coito: «Io devo conquistarlo, lui deve conquistarmi. Il rapporto muta ogni sera». Ha detto che nel 1968 aveva deciso di smettere e si era ritirato a Levanto, dove faceva l’oste e invitava molti amici a suonare nel suo locale: non gli piaceva il periodo nel quale dominava la canzone politica simile a un inno. Lui preferiva fare politica cantando in modo originale di un amore o del rapporto egualitario tra uomo e donna, tanto tutti sapevano che era di sinistra.
Paoli ha inoltre rivelato che l’armonica che compare in “Il cielo in una stanza” l’aveva suonata al matrimonio di suo nonno Gino, anarchico che si era fatto convincere in tarda età a salire su un altare: “Quella canzone è la celebrazione di un rito, di un officio, di qualcosa di sacro come è fare l’amore. Il riferimento all’armonica ci stava bene”. Il concetto è stato ripreso in “Il cielo in una stanza”. Ha affermato di considerare “Imagine” di John Lennon la più bella canzone mai scritta, di essere soddisfatto della sua traduzione del testo quando l’ha inserita nel proprio cd “Appropriazione indebita” (1996). Si è intanto tolto un altro sfizio: canta “Il cielo in una stanza” in duetto con Carla Bruni, alias madame Sarkozy, nel doppio cd “Senza fine”.
All’inizio del 2009 è uscito “Storie” con dodici pezzi, in cui spiccano “Il nome”, “La chiave”, “La falena”, “L’uomo che vendeva domande”, “La signora e Mauri” dedicata a un caro amico scomparso, l’inventore e primo animatore del suo sito ufficiale su internet. Un pezzo di questo cd, “Il pettirosso”, ha fatto ingiustamente scandalo. Nella canzone si racconta di una bambina di undici anni, violentata da un uomo più anziano. Lui, alla fine, muore e lei ne prova pietà. La Commissione parlamentare bicamerale per l’infanzia, presieduta da Alessandra Mussolini, aveva deciso addirittura di ascoltare come “imputato” Paoli nell’ambito di un’indagine conoscitiva. Gino non ha risposto all’invito della Commissione. Si è limitato a far sapere che il testo è chiaro e non ha bisogno di ulteriori approfondimenti. Ai giornalisti aveva spiegato che la canzone parla di «umanità, una parola importante da capire, la scopre solo il bambino che non ha sovrastrutture». In un’intervista al quotidiano cattolico Avvenire, organo della Conferenza episcopale italiana, aveva dichiarato: «Davanti al vecchio pazzo che dopo la violenza le muore sotto gli occhi, esercita quella pietas cristiana di cui invece la società nella sua spasmodica ricerca del mostro ha perso traccia».
Si può chiudere questo ritratto con le parole dello stesso Paoli che lo descrivono meglio di qualunque altro: «Non ho mai vissuto o agito in maniera diversa da quello che sentivo. La mia carriera di cantautore è stata una battaglia dall’inizio alla fine, nel senso che non ho mai concesso niente, non mi sono mai venduto, non ho mai tentato di avere qualcosa che non mi spettasse, non ho mai cercato di ottenere qualcosa con altri mezzi se non con ciò che scrivevo e cantavo, neanche un sorriso facevo per paura che sembrasse una maniera per vendermi. Io voglio esere amato per quello che sono, non per quello che sembro» (dal libro “Noi due, una lunga storia”, 2004).
Questa onestà umana e artistica dev’essere arrivata al pubblico, a quello che lo segue da mezzo secolo e a quello che si è rinnovato di generazione in generazione. Il pubblico lo ama come si amano i grandi artisti che fanno epoca.

di Aldo Garzia


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