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sabato 3 aprile 2010

Metastasio Jazz 2010

Metastasio Jazz 2010
Pubblicato: March 25, 2010


di Neri Pollastri Commenta

Prato, 24.01-22.02 2010
Come sempre ricco il programma di Matastasio Jazz, il festival che si svolge presso il teatro di Prato da ormai quindici anni e che, come già nelle recenti edizioni, affiancava al concerto del lunedì sera un altro appuntamento c oncertistico accompagnato da una conferenza, la domenica mattina.

Vale forse la pena osservare preliminarmente che l'appuntamento domenicale, a dispetto della sua inusualità (fatta rilevare con ironia da più di un "assonnato" musicista), ha riscosso un notevole successo di pubblico, in parte certo per la qualità delle proposte, in parte forse proprio grazie alla presenza delle conferenze. Condotti da esperti conoscitori della materia e abili conversatori, corredati da esempi sonori su supporto registrato, tematicamente correlati ai concerti del giorno successivo (rispetto ai quali si ponevano come introduzioni), questi momenti hanno risposto a una diffusa esigenza di approfondimento nella storia e nella struttura di una musica - il jazz - che per complessità può talvolta restare enigmatica all'ascoltatore meno avvezzo. Un plauso dunque al direttore artistico del festival, Stefano Zenni, nell'insistere su questo tipo di momenti all'interno della rassegna.

Del programma - scanditosi in 10 appuntamenti nell'arco di un mese - possiamo giocoforza dar conto solo in parte.

Negli appuntamenti principali, dopo il trio del pianista forse oggi più sulla cresta dell'onda - Vijay Iyer - e il quartetto Idea di Cristina Zavalloni, si sono presentati il sontuoso quintetto The Sound Ensemble di Roscoe Mitchell e il quartetto di Franco D'Andrea, fresco di registrazione e di plausi unanimi della critica. La conclusione, di cui parleremo, è stata affidata all'interessantissimo quartetto Buffalo Collision capitanato da Tim Berne.

Gli incontri domenicali - tenutisi presso la sede della australiana Monash University, alle spalle del teatro Metastasio - hanno visto di scena nei primi due appuntamenti il giovane gruppo bolognese Collettivo 213 (conferenza di Zenni su "La nuova scuola di Brooklyn") e la solo performance di Francesco Bearzatti Duke Ellington's Sound of Love, dedicata all'esplorazione per sole ance della musica del grande compositore e bandleader (conferenza di Giuseppe Vigna su "Hammond, Fender Rhodes e campionatori. Le peripezie elettr(on)iche del jazz").

Al terzo appuntamento domenicale era di scena Orange Room, sestetto d'area El Gallo Rojo, diretto da Beppe Scardino (clicca qui per leggere la sua recente intervista). Si tratta di un gruppo molto interessante, che ha pubblicato un paio d'anni fa un primo disco (clicca qui per leggerne la recensione) e si accinge a registrarne un secondo, basato su quanto proposto al concerto: una musica che unisce in modo raffinato scrittura e improvvisazione.

Il sestetto si mostra in certo senso suddiviso in due sezioni - la ritmica e i fiati - tra le quali il vibrafono funge da anello di congiunzione (a dispetto dal suo essere isolato su un lato della scena). Il cuore dei brani attualmente in repertorio è di solito un nucleo di libertà espressiva di uno (o due) dei solisti, attorno ai quali gli altri propongono ad libitum microtemi scritti, reiterandoli o variandone gli accoppiamenti. Le atmosfere mutano spesso, così come i frammenti di gruppo attivi di volta in volta. Belli i suoni, sempre nitidi e leggibili singolarmente; a momenti assai trascinante la scansione delle strutture, che conferisce alla musica un ritmo aggiuntivo. Musica complessa, ma non cerebrale, che trasmette lo sforzo fatto nella coniugazione di libertà e ordine formale. I brani erano tutti di Scardino, tranne "To Be" di Coltrane e, nei bis, due pezzi di Julius Hemphill e Roscoe Mitchell. A quest'ultimo, che sarebbe salito sulla scena del teatro la sera successiva, era dedicata la conferenza di Zenni "Le geometrie emozionali di Roscoe Mitchell".

La domenica successiva il concerto era dedicato ai due vincitori ex aequo del premio pianistico intitolato a Luca Flores: Antonino Siringo e Giuseppe De Gregorio.

Trentaduenne di formazione e prima carriera classiche (ha alle spalle numerose importanti esecuzioni di musica contemporanea), Antonino Siringo da alcuni anni si dedica quasi esclusivamente al jazz. Partito da Monk e Tristano (al quale ha dedicato il progetto Lennie's Pennies), il pianista sta sviluppando una propria personalità musicale che tenga conto tanto dell'amore per l'improvvisazione (del quale è docente alla Scuola di Musica di Fiesole), quanto della sensibilità sviluppata nel corso della sua formazione classica.

Siringo ha alternato brani lirici e dilatati ad altri ritmicamente insistiti, sincopati e frammentati. Nel primo, "For Those I Never Knew" di Luca Flores, l'uso delle pause era quasi estremo, con lunghi silenzi nei quali veniva lasciata risuonare la eco delle note. Evidente l'influenza classica, ma anche quella di un pianismo evocativo, liricamente drammatico, che richiama Paul Bley. Non troppo dissimile il terzo brano, di Carla Bley. Nel secondo - "Bouncing With Bud" di Bud Powell - e nell'ultimo brano - "Locomotive" di Monk - era invece lo maggiore spazio per le variazioni dinamiche, a sottolineare l'andamento ritmico con un occhio anche alla musica classica novecentesca.

C'è forse ancora qualcosa da armonizzare nello stile, ma la personalità di questo nuovo talento del pianismo jazz italiano ha tutto per essere interessante e, soprattutto, originale.

Di altro tenore, ma sempre interessante, l'esibizione del secondo vincitore, il pianista romano Giuseppe Di Gregorio, che ha attaccato operando direttamente sulle corde e giocando con pedali ipnotici per far emergere lentamente "All The Things You Are," in un lungo pezzo non privo di suggestione. Dello stesso genere, ma più semplice e lirica, la successiva composizione originale, "Canzone della speranza," mentre più pirotecniche (ma un po' meno coerenti) le medley con le quali il giovane musicista a concluso la performance.

Di Gregorio è sembrato forse un po' meno maturo di Siringo, ma anch'egli è parso avere idee originali e un certo coraggio nel metterle all'opera. Aspettiamo perciò entrambi alle prossime prove, magari per aggiungerli alla lista delle proposte pianistiche del nostro paese che, subito dopo, Luigi Onori ha offerto nel corso della sua conferenza "Piano Jazz in Italia oggi".

L'ultimo appuntamento domenicale ha visto di scena il quartetto Maremma, diretto da Raffaello Pareti. Rispetto però all'omonimo disco per Egea (clicca qui per leggerne la recensione) il gruppo è cambiato: la chitarra di Bebo Ferra è stata sostituita dal piano di Giovanni Guidi e alla fisarmonica c'è stato l'avvicendamento tra Antonello Salis e Simone Zanchini.

Ciò ha prodotto un sorprendente mutamento delle dinamiche musicali: Guidi, infatti, svolge un ruolo meno costante di Ferra - soprattutto incornicia i brani con introduzioni e soli magari un po' estranei, ma suggestivi - e lascia più liberi i due solisti; Zanchini inserisce nel tessuto del gruppo uno spettro forse più ampio di forme - lirismo, swing tipicamente jazzistico, spunti etnici, improvvisazioni libere e magmatiche non inferiori a quelle di Salis - e, soprattutto, pare avere un feeling unico con Cantini, così che i due si trovano continuamente a dialogare in modo libero e ad altissimi livelli, con grande vantaggio per lo spettacolo. Il tutto, con l'usuale attenta regia di Pareti e il robusto supporto ritmico dei suo contrabbasso.

Nel programma, diversi brani dal tradizionale repertorio del gruppo (che, prima di Maremma, aveva registrato anche Il circo) e alcuni nuovi, come "Pat" e "Ritratto del pianista da giovane". Per una musica lirica, forse non particolarmente innovativa, ma vitale e coinvolgente, oltre che suonata magistralmente.

A seguire, una conferenza di Claudio Sessa, "Le età del jazz. I contemporanei," a metà tra l'esplorazione rapsodica del panorama jazzistico attuale e la presentazione del suo libro, dal titolo omonimo (clicca qui per leggerne la recensione).

Metastasio Jazz si è concluso il giorno successivo con un raro concerto di Tim Berne - figura sempre più trascurata da qualche tempo - con il supergruppo Buffalo Collision, che lo vede accompagnato dal violoncellista Hank Roberts e da Ethan Iverson e Dave King - ovvero pianoforte e batteria di The Bad Plus.

Il gruppo arrivava con grandi aspettative dovute anche al successo di critica riscosso all'estero. Tuttavia, a nostro personale parere, ha abbastanza deluso, specie alla luce delle possibilità dei musicisti coinvolti, viceversa assorbiti e incatenati da una proposta ipnotico-crepuscolare nella quale neppure i suoni sembravano potersi sprigionare liberamente.

L'intero programma è andato avanti con monotona univocità, su brani fotocopia composti da ondate sonore potenti ma quasi mai increspate, che raramente permettevano espressività più che diafane. Iverson - pianista sanguigno e surreale, capace di esprimersi attraverso molteplici forme - era in verità sottoutilizzato, suonando su pochi accordi reiterati; Roberts (peraltro sempre un po' troppo cerebrale) ha imbracciato una sola volta l'arco e si è espresso per il resto a pizzichi nervosi e frammentari; King, dal canto suo, è stato anche troppo a lungo al centro della scena: tuttavia la sua batteria, a lungo dominatrice, era in realtà anch'essa castrata, in quanto le era impedita un'autentica funzione ritmica e le veniva soprattutto richiesto di imporre interruzioni violente a un sound continuo ma privo di variazioni.

Lo stesso Berne, in questo contesto, non è riuscito a far emergere il bel suono del suo contralto, nascosto dietro linee circolari sempre uguali, al massimo apprezzabili per l'ipnoticità e per il brillante impiego della dinamica, ma non per il risultato complessivo. Peccato, perché tra le pieghe i guizzi dei solisti facevano timidamente ricordare quanto essi siano capaci di offrire. E che magari riusciranno a esprimere in futuro anche con questo quartetto.


Foto, di repertorio, di Claudio Casanova (Scardino, Berne) e Roberto Cifarelli (Pareti).
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