sabato 20 novembre 2010
Paolo Conte
Paolo Conte
L'avvocato col vizio del jazz
di Michele Saran
Dallo status di praticante forense a quello di cantautore schietto e distaccato, sempre a contatto con le pulsioni più vive e acuite di un animo nostalgicamente divertito e con una notevole sensibilità di stampo jazzistico e latino-americano, attraverso il suo coerente operato ha costituito una delle esperienze cardinali della canzone italiana. Il recente progetto "Razmataz" ha sancito la supremazia di una figura trasversale sia al cantautorato doc che al compositore tout-court, dotata di una predilezione per le arti visive e le avanguardie del primo '900
Paolo Conte (RCA, 1974) 6,5
Paolo Conte (RCA, 1975) 7
Un gelato al limon (RCA, 1979) 6
Paris Milonga (RCA, 1981) 7
Appunti di viaggio (RCA, 1982) 7,5
Paolo Conte (CGD, 1984) 8
Concerti live (CGD, 1985)
Aguaplano (CGD EastWest, 1987) 6,5
Paolo Conte live (CGD EastWest, 1988)
Parole d'amore scritte a macchina (CGD EastWest, 1990) 7
Stai seria con la faccia ma però (antologia, 1992)
Novecento (CGD EastWest, 1992) 7
Tournée live (CGD EastWest, 1993)
Una faccia in prestito (CGD EastWest, 1995) 6,5
The best of Paolo Conte (CGD EastWest, 1996) 7
Tournée 2 live (CGD EastWest, 1998)
Razmataz (CGD EastWest, 2001) 6
Razmataz Dvd (CGD EastWest, 2001) 8
Reveries (CGD EastWest, 2003) 4
Elegia (Atlantic, 2004) 6,5
Paolo Conte Live Arena di Verona Cd / Dvd (Warner, 2005)
Wonderful (Rca, 2006)
Paolo Conte Plays Jazz (Sony-Bmg, 2008) 4
Psiche (Universal, 2008) 5
Blue Swing - Greatest Hits (Sony-Bmg, 2008)
Nelson (Universal, 2010)
5,5
disco consigliato da Onda Rock
pietra miliare di Onda Rock
Concerto: Paolo Conte
pluslessPaolo Conte è uno dei più originali cantautori italiani, e di sicuro il più erudito e coerente. Il suo stile nasce dall'accordo tra le ninnananne fantasmagoriche di Leonard Cohen, la sensibilità da cantastorie parigino di inizio '900, le big band jazz di Duke Ellington e Bix Beiderbecke, la sensibilità del song jazz-pop di Hoagy Carmichael e della chanson di Jacques Brel. A questo va di certo aggiunto uno stile erudito di costruzione delle liriche, sempre in bilico tra passioni sfrenate, malinconie di memorie passate, spiriti eleganti e forbiti, immagini traslate spontaneamente verso la sinestesia e il simbolismo da belle epoque, dove a tratti si fa largo un ermetismo schivo.
I suoi due strumenti, il pianoforte e la voce (prima ancora che le canzoni vere e proprie) faranno da battistrada a una delle contaminazioni più seducenti di sempre, almeno nei rispetti del panorama del cantautorato italiano, e insieme contribuiranno al non trascurabile merito di aprire le porte alla riscoperta filologica e classica (estranea quindi agli esperimenti del giro Cramps, Perigeo, etc.) della musica jazz in Italia, fino ad allora tenuta a forza nell'oscurità. Il Conte interprete, in ultima analisi, si pone come chanteur decadente, distaccato, obliquo e nobile a un tempo, con un timbro vocale roco e profondo, soavemente sferzante, pungente e anti-retorico.
Paolo Conte nasce nel 1937 ad Asti, da una famiglia di legali. Durante la guerra trascorre molto tempo nella fattoria del nonno, laddove si compie uno dei primi capitoli della sua formazione: il rispetto della diversità delle culture e, allo stesso tempo, del proprio luogo d'origine. Tramite i genitori (appassionati sia di musica colta che di canzoni popolari) apprende i rudimenti del pianoforte, assieme al fratello minore Giorgio, ma la vera passione musicale giunge con l'immediato dopoguerra. L'avvento della stagione del cinema moderno, oltre alle marce delle bande militari americane, ma soprattutto l'ascolto di dischi e di concerti di musicisti americani in tour, generano il primo embrionale amore di Conte per la musica jazz.
Laureatosi in Legge all'Università di Parma, inizia a lavorare come assistente presso lo studio paterno, ma nel frattempo decide di estendere al livello semi-professionale gli studi musicali. Sono quelli gli anni delle sue prime band, i cui nomi tradivano l'euforia per il jazz e lo swing d'oltreoceano: Barrelhouse Jazz Band, Taxi for Five, The Lazy River Band Society. Il più fortunato del lotto, il Paul Conte Quartet (in cui figurava anche il fratello Giorgio alla chitarra, mentre a Paolo spettava il vibrafono), arriva ad incidere un Lp di brani standard jazz per la Rca ("The Italian Way to Swing").
Parallelamente nasce e si sviluppa la passione per la canzone italiana, filtrata sia attraverso le trasmissioni radio che tramite il suo interesse per le tradizioni popolari, in particolare per la canzone napoletana e per la chanson di Brel e Brassens. E' forse grazie a quelle poetiche di narrazione lucida e anti-retorica, a quegli sguardi disincantati e idealizzati su (dis)avventure di alienazione e cinismo, di farsa grottesca ma impietosa sulla società contemporanea, che Conte comincia a scrivere le sue prime canzoni, destinate a interpretazioni di artisti italiani e internazionali, dapprima senza paroliere in coppia col fratello e solo successivamente dedicandosi anche ai testi in coppia con Vito Pallavicini. Nascono così, nella seconda metà dei 60, "Siamo la coppia più bella del mondo" (esordio solista di Conte a tutti gli effetti, su testo di Luciano Beretta e Miki Del Prete, da subito numero uno in classifica) e "Azzurro" per Adriano Celentano, "Insieme a te non ci sto più" per Caterina Caselli, "Tripoli '69", "Genova per noi" e "Onda su onda" per Bruno Lauzi (anche coautore), "Messico e nuvole" per Enzo Jannacci, "Grin grin grin" e "Se (Yes)" per Carmen Villani, insieme ad altre collaborazioni con Patti Pravo, Johnny Hallyday e Shirley Bassey.
Queste prime avvisaglie del suo stile distaccato, riflessivo con arguzia e tagliente ironia, traboccante di immagini dinoccolate, verranno convogliate e esplose nel primo Lp a suo nome, Paolo Conte (Rca, 1974), in cui compare, oltre che come autore di musica e testi, anche come esecutore, interprete e arrangiatore. E' una raccolta ancora incerta e non precisamente a fuoco, quasi un'antologia revisionista delle opere prestate ad altri in precedenza, a suon di "Fisarmonica di Stradella" e orchestrata con una semplicità artigianale che fa emergere solo a tratti il talento più genuino delle opere della maturità. Quest'album è anche il primo episodio di una trilogia dedicata alla transizione da praticante di studio legale a cantautore tout-court. Vi compaiono spettri di una provincia disastrata da una vita assente e annoiata, avvolta da una membrana di ipocrisia latente, da angosce represse e inespresse, ma pure rimpolpata da emozioni intime, infuse da episodi commoventi e raccolti con cura.
In questo suo primo periodo creativo, Conte dà alla luce i primi due episodi della famigerata saga dedicata all'"Uomo del Mocambo", storia del proprietario di un mitico bar-scenario di situazioni decadenti, di curatori fallimentari (aiutato, in questo, da un forbito spirito autobiografico), di incomunicabilità tra conviventi, di tinelli "maròn", di facciate architettoniche (insegne, luci, etc.) assurte a simbolo di un umore generazionale, di caffè sorseggiati, quasi terapeutici nel loro scopo di estraniazione dal contesto di vita quotidiana. "Sono qui con te sempre più solo", "La ricostruzione del Mocambo", e, più avanti, "Gli impermeabili" e "La nostalgia del Mocambo" costituiscono una tetralogia di canzoni che per più di un motivo può essere assunta a metafora dell'opera di Conte, oltre che episodio altamente significativo della canzone italiana in senso lato.
"La ricostruzione del Mocambo" è anche uno dei pezzi forti del suo secondo album, Paolo Conte (Rca, 1975), opera che sancisce il definitivo distacco dalla produzione di canzoni d'interpretazione altrui, per approdare finalmente a una collezione di brani destinati a essere ricordati come suoi primi classici. Proprio il secondo episodio dell"uomo del Mocambo stupisce per la sua ritrovata vena jazzy (fino ad allora tenuta a freno), un fiato dipanato a mo' di Nino Rota e vocalizzi sonnolenti del coro femminile che impostano magnificamente la strofa. "Genova per noi", l'ultima reinterpretazione delle sue canzoni pregresse, diventa una marcetta a bolero impreziosita da capricciose dissertazioni di piano, ma pure con un accompagnamento che si arricchisce via via di preziose sfumature (anche cacofoniche), e "La Topolino amaranto", la primissima canzone scritta da Conte a quattro mani col fratello (e mai rispolverata prima di allora), uno stride à-la Luckey Roberts speziato da una contrastante associazione della fisarmonica a mimare una melodia popolaresca.
In Un Gelato al limon, capitolo conclusivo del primo periodo, è dotato di un autobiografismo già traballante, che spesso abdica in favore di interiezioni a viso aperto, di ritratti maggiormente metaforici, simbolici e impressionisti; arrangiamenti lussureggianti, suono più corposo (vi compare la Pfm), ma quelli che spuntano sono i jive puntuti ("Bartali", inno salace allo sport favorito) e i tango strascicati ("Rebus", "Un gelato al limone"). La risultante è un discutibile compromesso tra la transizione e il consolidamento di uno stile casual, ma con una medietà di fondo che troppo si sforza di non essere qualunquismo.
A questa trilogia di opere ne farà seguito una successiva, caratterizzata dall'apertura stilistica che ne decreterà l'assoluto valore artistico e la riconoscibilità, e dalla volontà di parlare apertamente all'ascoltatore di immagini minute, sensazioni, emozioni, odori, profumi, incontri e scontri di personaggi beffardi o sardonici, ideali mitici e cicli simbolici. L'autobiografismo cede definitivamente il posto all'uomo disincantato e ai suoi enigmi, alle melanconie di una vita ancora in divenire, ai rimpianti e alle rievocazioni. Le istanze stilistiche si ampliano considerevolmente, arrivando a lambire nuclei davvero malleabili di idee efficaci e dall'inesauribile fantasia. Le sue canzoni diventano così vere e proprie occasioni musicali in grado di ospitare danze latino-americane (tango, habanera, fandango, paso doble, jive, cha cha, rumba), piece piano-voce di melanconia struggente (spesso impreziosite con interpretazioni solistiche) e ampie aperture melodiche (viste soprattutto come controparte forte della parte testuale), e di fondere ogni tipo di istanza stilistica in forme inconsuete, eleganti, distaccate ma altrettanto partecipate. Al di sopra di tutto, la propensione alle partite jazz e swing, influenzate da Fats Waller e Duke Ellington, si esprime in tutta la sua eleganza obliqua e distaccata, contribuendo a porre le liriche (pregne di ellissi, giochi di parole, sinestesie) su un piano ancor più alto di schiettezza emotiva anti-magniloquente.
Le nuove conformazioni delle sue band di supporto vanno coerentemente in questa direzione, collocandosi a metà via tra ensemble jazz e big band, e mostrando sempre nuove capacità di invenzione.
Primo frutto di questa "coerente deviazione" contiana è Paris Milonga (Rca, 1981). Così, nell'apertura affidata a "Alle prese con una verde Milonga" (uno dei suoi capolavori), tramite la lentezza sorniona, il declamato melodioso della voce di Conte (notevolmente abbassato di tono rispetto al "Gelato"), il bolero/blues/flamenco portato avanti da fattucchieri armonici, appare chiarissima una volontà di contaminazione sfibrante, obliqua ma perentoria. Lungo tutta l'opera, Conte distribuisce con dosato equilibrio i caratteri portanti del suo repertorio: toccanti ballate piano-voce ("Blue Haway", "Parigi", "Un'altra vita"), sketch swinganti con madrigalismi e contrappunti di chitarre da Carosello ("L'ultima donna"), vaudeville in versi liberi ("Via con me", "Madeleine"), piece da big band con forte apparato improvvisativo ("Boogie"), persino irresistibili neo-standard ("Pretend Pretend Pretend"). E' un album sapientemente jazzy, a dichiarare quasi un'urgenza dopo tante repressioni creative, che forse ha importanza tanto teorica (illustrare le possibilità della forma canzone all'alba del nuovo periodo creativo), quanto pratica: raramente Conte raggiungerà ancora queste vette di godibilità spicciola, e insieme il miglior punto di partenza per un sound filologicamente contiano.
Se Paris Milonga materializza il boom di Conte come personaggio unico nel panorama italico, ma è ancora vagamente stentante sotto il profilo della rifinitura complessiva dell'opera, il successivo Appunti di viaggio (Rca, 1982) procede spedito nella direzione della definizione dell'album come ciclo di canzoni, come totalità inespugnabile. Caso forse unico nel panorama della discografia di Paolo Conte, è un'opera malandrina e sciatta, che canalizza superbe capacità strumentali e poetiche in canovacci vitali di forte suggestione, spesso senza inizio e fine, ma solo dotati di autonomia, di coscienza di essere brandelli scorciati di ironia quotidiana, di particolari di bozzetti magnificati e scardinati dal loro contesto di appartenenza. Già nello splendido incipit di "Fuga all'Inglese", con una sorta di campionamento (quasi anticipatore del lo-fi) di piece Gershwin-iana, emerge l'estetica più pura di Conte: il ritrovamento degli scarti del passato, la loro reintegrazione per farsi veicolo di trasfigurazione temporale e, insieme, di gioia inventiva.
Con "Dancing" ci si catapulta in una rumba scaltra, accompagnata da un piano elettrico e un'orchestrina Memphis-style, e "Lo Zio" è un moto Buscaglionesco che impagina cavalcate di chitarra swing fino alla chiusa maldestra per colpo di piatti, mentre "Diavolo rosso" è uno straordinario foxtrot da camera con palpiti di synth e una sezione ritmica incalzante. "Gioco d'azzardo" e - in misura minore - "La frase" sono accessori di tutto rilievo per l'economia dell'album: di nuovo cicli continui genialmente costruiti quasi ad libitum, con ritmi di balera, synth estatici ma inquieti, e parti improvvisative in pieno stile bop guidate dal sax contralto.
"Hemingway", astro fulgido della sua opera, suo capolavoro melodico, è una codifica del formato canzone organizzata secondo un crescendo corale e emozionale che parte dai languori sottotono di Conte e arriva a una grande apertura strumentale per fiati e tastiere innescata dal solo piano. "Nord" chiude l'album come "Wreck On The Highway" chiudeva lo Springsteen-iano "The River". Un vuoto nostalgico, marcato dai toni di diario confessionale, si fa largo nei versi da filastrocca dolcissima, per poi alzarsi in veduta aerea con un tema melanconico ma pure rasserenato da una jam agrodolce del tutti orchestrale. Conte è qui davvero al suo apice formale e sostanziale, alla piena consapevolezza delle sue potenzialità artistiche (anche in virtù di una sempre maggiore dimestichezza con i generi e i prestiti "esterni"), alla dichiarazione d'intenti che non si limita a un programma pure puntuale sulle manipolazioni della forma canzone, ma che invece sonda con fare arguto zone strumentali e piani narrativi, trasporto emotivo e distacco da narratore votato all'essenzialità disarmante ma altamente evocativa.
Con Paolo Conte (Cgd, 1984), la fusione delle due precedenti istanze creative (quella dei classici di Paris Milonga e quella globale degli Appunti) arriva a perfetto compimento. E', insieme, il suo disco più sofferto e meditato, il suo "Tonight's The Night", il Conte più meditabondo e quasi vittimista, e insieme uno snodo espressivo destinato a imporsi alle nuove generazioni come punto cardinale del nuovo cantautorato a venire. Da una parte ci sono canzoni memorabili come "Gli impermeabili", prosecuzione e apice dello standard melodico contiano, nonché terzo episodio della tetralogia del Mocambo (una sorta di sereno funerale alla sconfitta delle aspirazioni intonato dagli archi aerei), "Come mi vuoi?", serenata anti-romantica per piano e sax, o ancora "Come - di", irresistibile swing alla Calloway. Dall'altra c'è il tema unificante dell'uomo scimmia (nelle comunità nere è il ballerino jazz), dipanato secondo dotte citazioni-metafore di un personaggio ridotto a una sorta di sbando emotivo. Nel mezzo dell'opera viene "Sotto le stelle del jazz", forse il suo capolavoro definitivo, una mistura geniale e poetica di atmosfere intime, confidenziali, liriche ed enigmatiche, dagli accenti gospel, blues, honky tonk e brass band, una raccolta di mottetti mitici (su testo originalissimo e commovente), di immagini notturne create dalla notte stessa, un diario di sospiri blues e di nostalgie trasognate.
Completano il tutto lo strumentale "The Music - All?", sonetto dolente per piano e vibrafono, quasi una sua personale versione dei "Notturni" chopiniani, la ballata di "Chiunque", con un nuovo duetto di piano e sax a spartirsi tristezze accorate e indefinite, secondo una progressione di accordi nobili e taciturni, e la piece avveniristica di "Simpati - Simpatia", con il sequencer in bella vista a donare disegni di raccordo al piano sempre presente.
Apoteosi del Conte cantante, pianista, poeta maudit tutto italiano di un'anima segnata nel profondo da sofferenze minute, è un disco subliminale che si compone di brani felici nelle loro contaminazioni scevre, allampanate. Laddove il jazz serve soprattutto a costruire impalcature emotive, l'autore addomestica strumenti e orchestrazioni secondo un umore trasfigurato a invettiva solenne, preghiera introspettiva. "Come mi vuoi?" avrebbe dovuto far parte di "Occulte persuasioni" di Patty Pravo (Cgd, 1984), ma ne rimase escluso; effettivamente però il cantautore collaborò all'album con lo pseudonimo di "Solingo".
Accolto benevolmente dalla critica, il disco lancia Conte anche nello scenario internazionale. Ne segue un'intensa attività live, che lo vedrà impegnato in Italia come (e forse più) in Francia, quella stessa Francia che gli aveva infuso ispirazione agli inizi della sua carriera. Concerti (Cgd, 1985), contenente registrazioni dal vivo di queste prodezze in forma di canzone, immortala degnamente questo periodo.
Sulla scia del rinnovato interesse nei suoi confronti, Conte pubblica la sua opera più ambiziosa, uno dei rari album doppi della musica italiana, Aguaplano (Cgd, 1986). Si tratta, in realtà, della tipica opera di transizione, in cui l'autore raccoglie i frutti del seminato e, con i medesimi ingredienti, ribadisce la sua estetica e appronta il punto della situazione. Il formato del doppio vinile contribuisce a porre in essere le sue più urgenti volontà, ma neppure Conte riesce a sottrarsi al rischio di enciclopedismo cui spesso ci si imbatte in questi casi. Il rafforzamento dei suoi standard è comunque convincente. Ci sono, ad esempio, le ormai classiche aperture melodiche: la title track, con l'ampio tema boliviano intonato da coro e orchestra, o "Max", altro dei suoi brani forti, un crescendo agogico con motivo bipartito à-la Bolero di Ravel. "Paso Doble" è una gag piano-voce da cabaret jazz, quasi auto-ironica, con brillante alternanza tra strofa incupita e ritornello accelerato con note ribattute in tonalità maggiore, e "Nessuno mi ama" attacca con un tema sensuale di piano, sax e contrabbasso, per poi librarsi in uno swing Ellington-iano con l'introduzione di un coro femminile.
La sortita partenopea di "Spassiunatamente", la cool-song di "Anni", il tempo ternario di "Hesitation", adornato dai madrigalismi impostati dai giochi pianistici della mano sinistra, il divertissment in tempo dispari di "La Negra", il valzer per piano bonaccione da parodia della belle epoque di "Non Sense", la ballata in rima di "Gratis", la danse macabre condotta dallo jambé di "Les Tam-Tam du Paradis", la piece dell'assurdo onomatopeico-poliglotto di "Ratafià", sono tutti episodi di aggiustamento e di sguardo al futuro. Più cartina tornasole, test creativo, che opera profondamente sentita, Aguaplano è il disco delle mezze verità: Conte si sbizzarrisce, ma soprattutto constata; non entusiasma, ma teorizza.
Un altro disco dal vivo, Paolo Conte Live (Cgd, 1988), prova che il periodo è maggiormente incentrato alla ricerca e alla rielaborazione delle proprie tematiche che alla creazione vera e propria.
Con il dittico Parole d'Amore Scritte a Macchina e Novecento, s'inaugura un nuovo periodo di fertilità per il cantautore. Passate le grandi sbornie concertistiche, Conte si dedica maggiormente alla propria personalità più intima, alle emozioni spicciole, soprattutto esternando una volontà che parte dal suo vissuto più profondo. Dopo aver sondato esperienze in forma diretta dal punto di vista della condivisione con una controparte umana ("Lo Zio", "Fuga all'inglese", "Come mi vuoi?") o mitologica ("Alle prese con una verde Milonga", "L'ultima donna", "Sotto le stelle del jazz", "Diavolo rosso"), Conte assesta le sue istanze poetiche su narrazioni e confessioni che partono principalmente dal proprio io sognante, elaborante, inquieto con levità.
Il primo, Parole d'Amore Scritte a Macchina (Cgd, 1990), è l'opera più anomala della sua carriera, che segna un'ulteriore svolta stilistica al limite dello sperimentalismo. E' anche il suo primo album a focalizzarsi sull'atmosfera, mai così scarna, impavida, enigmatica e allo stesso tempo sbilenca e appena sbozzata, e su costruzioni insolite e anacronistiche. L'ouverture, "Dragon", è degna di stare accanto a "Alle prese con una verde Milonga": uno straniante boogie-blues "ferroviario", scandito dal sequencer sovrainciso e da chitarre in trance, con cori e vocalizzi voodoo, fratturato tra gli sbotti del trombone con sordina, le contorsioni del clarino, orpelli arcani di contrabbasso e una tanto breve quanto oscura declamazione di Conte. "Il Maestro" è addirittura un epico inno Verdi-iano intonato da un coro femminile, ripetuto da Conte con la sua solita capacità di variazione obliqua, tributando parte delle sue stesse influenze artistiche. "La canoa di mezzanotte", l'episodio più sperimentale della sua carriera, è un duetto (Sybil Mostert alla seconda voce) basato quasi esclusivamente su synth e sequencer, e "Ma si t'a vo' scurda'" è un'altra piece partenopea.
In "Ho ballato di tutto" un fiero inciso da sonata beethoviana prelude a una sordida esplosione dei pizzicati rutilanti degli archi e alle pennate marziali della chitarra, e intersecazioni astratte di arabeschi orchestrali in dissonanza contrappuntistica. "Un vecchio errore" è un nugolo di sottocodici (classicismo e accompagnamento ballad, confessionalità, rassegnazione e cocciutaggine) che impagina una nuova piece piano-voce (e una delle sue migliori). "Mister Jive", infine, chiama in causa nuovamente il coro per dipingere un nostalgico omaggio a Harry Gibson e al "Cotton Club", tempio storico della musica jive, dotato di crooning decadente e compassionevole tristezza nell'alternanza strofa-chorus. E' un album incantatore, che rifugge ogni programmatica retorica per farsi fatalista fino all'eccesso. La voce di Conte, gigiona, "soul" e impertinente come non mai, fa sfoggio di grammelot, prestiti linguistici, ermetismi e istrionismi. La copertina è stata disegnata da Hugo Pratt.
La seconda parte, Novecento (Cgd, 1992), pur mantenendo costante la vena nostalgica, procede in direzione opposta. Il focus dell'opera è quello della fusione massimalista (orchestrale) di stili e generi musicali tra i più diversi, ma sempre ricondotti nell'umore artistico d'inizio secolo, o del trapasso tra due ere. "Gong-Oh", la più filologica del lotto, è un tributo à-la Art Tatum dedicato a Chick Webb e Sidney Bechet. La title track è un altro sfolgorante preludio, un'apertura sinfonica con trilli Waller-iani del piano, un tema di valzer, e un'atmosfera liberty da fin de siecle, in consonanza con la carovana di cantastorie e saltimbanchi dell'orchestrazione. La nuvola di synth di "Il treno va" e della romanza di "I giardini pensili ha fatto il suo tempo" è l'unico ricordo degli esperimenti di Parole d'amore (in ogni caso qui utilizzato in senso altamente naturalista). "Schiava del Politeama" è un tango sordido nel miglior stile contiano, quasi una sua autoimitazione, ma pure una carezzevole orchestrazione di fisarmonica, concertino di archi e solo di sax.
Il duetto di piano e contrabbasso di "Per quel che vale" è sconsolato e rarefatto fino all'eccesso, ma si risolleva con un bolero decadente, e la tropicalia big band di "La donna della tua vita" è un piccolo carosello degli stili più cari all'autore. "Inno in re bemolle" è un music-hall lento e raffinato, dominato da un sax mesto, e "Una di queste notti" propone un'intro da circo fatato e - poco dopo - un'accelerazione da samba accattivante, mischiata nel modo più naturale a temi e idee melodiche da Caffè Concerto parigino. In "Do do" (cantato da Jino Touche, contrabbassista della band di Conte) sparisce la dimensione baldanzosa che pervade l'album e si fa avanti un'atmosfera sacra e intrigante a tratti, quasi una benedizione finale.
Vedetta e crocevia, corrispettivo delle intuizioni di riedificazione di climi austeri di Adolf Angst, è soprattutto un album contenitore, anche se di charme indiscutibile, che imposta un discorso sfuggevole fatto di canzoni sfuggevoli. Tradizionale solo in senso molto superficiale: il tema anacronistico è un mero pretesto per esplorazioni e traiettorie deviate. Anomale quanto il precedente (e forse più). Novecento è anche l'album che esporterà definitivamente il cantautorato contiano presso quelli che sono normalmente considerati i suoi allievi (Vinicio Capossela, Sergio Cammariere, Ivan Segreto, Carlo Fava, Don Ciccio Philarmonic Orchestra), e porrà le basi per il suo stesso superamento.
Entrambi anacronistici, Parole d'amore e Novecento sono - diversamente da quanto si crede - due album contiani fino al midollo, il suo ying e yang, un'immagine e il suo negativo fotografico. Laddove Parole d'amore è ermetico, strumentalmente eccentrico, taciturno, confessionale e intimista, Novecento è descrittivo, orchestrale, logorroico, espansivo ed esuberante. Con questo dittico, Conte ha finalmente messo a nudo le sue basi emotive (prima ancora che artistiche), e edificato un ciclo di canzoni che va inteso paradossalmente come un tutt'uno inscindibile.
Il music-hall di "Bye, Music", la ballata in francese di "Reveries" e lo strumentale di "Ouverture alla russa" sono i tre inediti di Tournée (Cgd, 1993), primo volume di live registrati tra Amburgo, Parigi, Valencia e Vienna.
Una faccia in prestito (Cgd, 1995) ritorna a un nuovo ripensamento in stile Aguaplano. Come in quel caso, si tratta di un album prolisso e pedante, eclettico e non privo di momenti emozionanti, ma dalla scarsa tenuta globale. Sembra quasi che, in questi casi, Conte dia alla luce quante più idee possibili per mettere alla prova la sua arte e scacciare i fantasmi dell'inaridimento dell'ispirazione. "Don't Throw It In The W.C" è un'impegnativa ciaccona Armstrong-style che può essere assurta a metafora dell'intera opera: tromba con sordina a guidare una lunga introduzione semi-orchestrale, armonie convenzionali ma al contempo molta pregnanza nell'arrangiamento, versi scarni e di secondaria importanza. L'ormai veterano cantautore, in ogni caso, sa ancora splendidamente librarsi in rumbe vertiginose come "Elisir", in can-can baldanzosi come "Sijmadicandhapajiee", in ninna-nanne dolenti come "Le parole tue per me", e in staffette piano-voce come quelle della title track. "Danson metropoli" è un nuovo gioco non-sense swingante vagamente superfluo, e la seguente "Il miglior sorriso della mia faccia" tenta di scimmiottare i suoi passati capolavori melodici.
Sebbene con molti tentativi di riabilitazione alle spalle, quello di Una Faccia In Prestito è un Conte "struccato" che crede più a orchestrazioni scaltre e sonnambule (spesso rette dal solo Max Pitz) che ad associazioni fantasiose. Cominciano a farsi avanti canzoni pedanti che meglio figureranno nei live show del periodo, non a caso i più felici della sua carriera. I sette minuti finali de "L'incantatrice" e la drammaturgia spinta di "Quadrille", con il rodato Touche alla seconda voce, sono le prime avvisaglie del progetto "Razmataz".
The Best Of (Cgd, 1996) è la migliore antologia su Paolo Conte fino ad oggi realizzata. L'edizione del 1998, realizzata per il mercato americano, è prodotta dalla Nonesuch.
Tournée 2 è il sequel del disco di cinque anni prima, e il miglior album live di Paolo Conte (cinque gli inediti: "Swing", "Irresistible", "Nottegiorno", "Roba di Amilcare, "Legendary").
Conte è in ogni caso arrivato ben oltre il suo programma di illustre rivisitazione della canzone italiana, ne ha sfondato diversi limiti attraverso una reinvenzione che parte da presupposti liberi da qualsiasi costrizione di genere, ma pure giocando al rispetto reverenziale delle sue nobili fonti ispiratrici. Questa libertà compositiva non ha mai fruttato espedienti contraddittori o privi di dimensioni creative sterili o senili, ma anzi appare votata alla spontanea continuità lungo direttrici poetiche pregne di fascino, di un'autodescrizione che è apertamente intransigente con il destinatario dell'opera artistica, e in primis con sé stesso, uomo elegante e melanconico sempre in preda a turbamenti soavi di impalpabile profondità. Nelle spavalderie felliniane del secondo disco, così come nei moti perpetui di Appunti di viaggio, o nelle dissertazioni stilistiche di Aguaplano, così come nei vaudeville jazzati di Paris, Milonga, nelle lamentazioni dell'omonimo, così come nelle coloriture orchestrali di Novecento, o negli ermetismi eccentrici di Parole d'amore, emerge una personalità irriducibile, votata a un continuo gioco di sobria rielaborazione e incanalamento rigoroso in termini di rispetto di regole e genuine consuetudini. Questo "doppio registro" è, alla conclusione di questo intenso periodo creativo, una delle più grandi e miracolose lezioni impartite al cantautorato e alla musica italiana in generale.
L'autore, esaurita parzialmente la vena creativa della forma canzone, si dedica alla realizzazione di un'opera che tiene in segreta gestazione fin dai suoi esordi.
Razmataz, il risultato finale di quel lungo processo, è un colossale progetto di operetta multimediale per illustrazioni e colonna musicale, che - da sola - rappresenta una stagione creativa particolarmente cara all'autore. Tale progetto serve a Conte per muoversi su più fronti: anzitutto quello di (ri)scoprirsi compositore in grado di pennellare operette liriche, alle prese tanto con arie quanto con ouverture, intermezzi e grandi parate orchestrali. In seconda analisi, è l'occasione irrinunciabile per poter mettere a nudo, finalmente, la passione innata per la pittura e la storia dell'arte, sia dandone frutto concreto producendo disegni e tavole sia focalizzandosi tematicamente sulle avanguardie artistico-pittoriche del primo '900 (surrealismo e dadaismo su tutti, anche se lo stile pittorico di Conte è più vicino al primo Carlo Carrà). Allo stesso tempo, il tutto serve a Conte per poter sondare, una volta di più, la sua grande capacità di amalgama, tramite il provvidenziale senso di discretezza presente da sempre nelle sue canzoni.
Ne nasce un'opera quantomeno significativa, anche se destinata a essere dimenticata in fretta (non certo a bissare i successi planetari del coevo "Gobbo di Nôtre Dame" di Riccardo Cocciante), realizzata nelle versioni italiana, inglese, francese e spagnola, che sviluppa in un centinaio di tavole (schizzi a carboncino, tempere, disegni, etc.) e in più di due ore di sincronizzazioni audio-video, una trama volutamente imprecisa.
Il pretesto narrativo è quello della ballerina africana di nome Razmataz, della sua rincorsa al successo nella bella e grande Parigi e della sua rapida e misteriosa scomparsa; qui incontri di talent-scout truffaldini, artisti di strada, amici dello spettacolo in pieno successo, e di altre figure mitologiche di oscura decifrazione faranno decollare la storia verso lo status di parata universale nel mondo dell'arte, intesa da Conte come creatività austera e sfuggevole, e verso la profonda riflessione sulle atmosfere di suprema contaminazione culturale degli inizi del '900, tra sperimentazioni pittoriche, jazz degli esordi, cultura africana, classicismo operistico, poetica dei bassifondi della metropoli.
Tecnicamente, la fruizione live dell'opera avviene tramite la visione multipla e sincronica di più proiettori, disposti in più sale secondo un percorso di mostra audiovisiva, e l'ascolto della colonna musicale. Nelle prime rappresentazioni del "Razmataz Tour", avvenute lungo tutto il 2001 a Cannes (prima internazionale in occasione della Mostra del Cinema), Londra, Berlino, e solo successivamente in Italia, lo spettacolo comprendeva una performance live eseguita da una band-orchestra sinfonica, alla stessa stregua di un preludio operistico, di un'introduzione da parte di una voce narrante fuori campo, e dello svolgimento vero e proprio, tramite tendine e transizioni tra opere pittoriche. La componente visiva reagiva in primis con sé stessa, a mimare interazioni dialogiche e parti solistiche, e poi - ancora in modo sincronico - con la colonna musicale (preregistrata) che ne costituiva alternativamente intermezzo strumentale, sottofondo di puro accompagnamento o vero e proprio attore protagonista, quasi a sorpassare la forza visiva dei personaggi inventati e disegnati dall'autore.
I brani vocali prevedono interpreti che spaziano dallo stesso Conte a soprani lirici, chanteuse dal timbro à-la Edith Piaf, crooner Waits-iani, performer afro-americane. Le composizioni - in linea con gli assunti di questo "musical pittorico" - inglobano elementi eterogenei, presi in egual misura dalla tradizione, dall'opera lirica e dal suo stesso repertorio personale.
Progetto fatto di anacronismo e retorica nostalgica, ambizione e ricercatezze da provinciale universalismo, itinerante difformità. Ha il classico gusto surreale dei Magrittiani macigni in aria, talmente innaturali nel loro spontaneo sfasamento temporale, che pure l'attenta osservazione diviene meccanica e certosina insensatezza. E' per questo motivo che il prevedibile flop ne pregiudicherà le sorti. Una sintesi mirata (da respirare profondamente, più che da vedere o sentire) dell'estetica Contiana tout-court. La colonna sonora, edita su Cgd East West nel 2001 e comprendente solo alcune highilight - riarrangiate - delle performance originarie, rende un tiepido merito di gradevolezza. Occasione compositiva tratta dall'omonimo romanzo, di pugno dello stesso Conte.
Reveries (2003) è un'altra commercializzazione pensata per il mercato americano (ma di lì a poco diffuso anche in Europa), contenente l'inedita versione di studio della title track, (fino ad allora conosciuta esclusivamente in veste live), insieme a stanchi rifacimenti di alcuni classici ("Dancing", "Fuga all'Inglese", "Come Mi Vuoi?", "Madeleine") e a brani originali tratti da Novecento e Aguaplano.
A nove anni dall'ultimo disco di canzoni, Conte torna con la sua opera più notturna e disillusa, Elegia (Warner, 2004). La title track attacca con un pianoforte solitario, dalle nobili volute Chopin-iane, "Chissà" è una ballata atmosferica basata su rintocchi gravi del piano e su sobri contrappunti e "Molto Lontano" è una danza ternaria con un cambio di tempo nel chorus che diventa (ri)cambio d'atmosfere. "Non Ridere" (un suo esclusivo e commosso j'accuse), "Sandwich Man" (calypso piano-driven dalle liriche impressionistiche), "Bamboolah" (una piccola valida opera di stilizzazione) e "Il Regno del Tango" (un'emotiva mistura stilistica in tempo di bossa) sono brani con cui il bardo di Asti torna a sfogarsi tramite invenzioni coloristiche rimaste forse adombrate in dischi come il precedente.
Il quarto episodio della saga dell'uomo del Mocambo ("La Nostalgia del Mocambo") è perfettamente integrato nel mood del disco: un'oasi estatica di note accarezzate di piano accostata e contrapposta a un chorus snello, mentre il protagonista mette da parte anche le sue ultime flebili speranze e si abbandona una volta per tutte (ma serenamente) al "tinello maròn" in compagnia dell'immancabile convivente, e sorseggiando l'altrettanto immancabile caffè.
Disco ruvido e privo di effetti retorici che non siano quelli riassuntivi di una poetica, Elegia, seppur con scarsa immediatezza bozzettistica, permette a Conte di muoversi con la bacchetta magica dello switching di umore e di sensazioni interiori, presa in prestito da un viandante sulla via di casa e avvolto dai mille pensieri del rientro. Massiccio impiego di Claudio Chiara (suona flauto, sax alto e tenore e contrabbasso). Primo album del cantautore per la Atlantic.
Dopo 37 anni, Paolo Conte è tornato a scrivere per Adriano Celentano. La canzone, "L'indiano", fa parte della colonna musicale della trasmissione televisiva "Rockpolitik", andata in onda su RaiUno nell'ottobre 2005.
A fine 2005 è stato pubblicato Paolo Conte Live Arena di Verona, doppio album live (corredato da relativo Dvd) contenente l'intera performance del concerto del 26 luglio, forse la più rappresentativa del tour 2005. E' presente un altro inedito, intitolato "Cuanta Pasiòn", che vede la partecipazione del chitarrista Mario Reyes (Gypsy Kings Family) e della cantante iberica Carmen Amor.
Wonderful (Bmg, 2006) è un superfluo box di tre cd a coprire in modo tanto elegante quanto maldestro l'intera produzione di Conte per la Rca (i primi due omonimi, Un gelato al limon, Paris Milonga e Appunti di viaggio).
Nel 2007 la Rai gli commissiona la composizione della sigla per la nuova edizione del Giro d'Italia. Conte risponde con "Velocità silenziosa", la prima rimembranza della bicicletta dai tempi di "Diavolo rosso".
Il 2008 vede il ritorno di Conte su più fronti, a sancire la conferma del nuovo entusiasmo post-"Razmataz"(una delle più importanti opere italiane di tutti i tempi), sia come interprete e performer, che come scrittore di canzoni. Compare Paolo Conte Plays Jazz (Sony, 2008) raccolta di standard swing e riesumazione dei primissimi giorni del giovane Conte improvvisatore (contenente per intero l'Ep "The Italian Way to Swing" del '62). Ultimo ma non ultimo, arriva anche il nuovo contratto discografico con la Universal.
Il primo frutto di questo sodalizio, Psiche (Platinum / Universal, 2008), ripete il gioco di Elegia: speculare sui suoi temi più cari tramite una sordida revisione che suoni come sommatoria delle precedenti opere. Tocchi della vecchia classe sono presenti in "Big Bill" e "Silver Fox", mentre nuovi auto-tributi coinvolgono la brasileira "Danza della vanità", il soul-gospel "Il quadrato e il cerchio", l'omaggio a Capossela di "Ludmilla" la drum machine di "Omicron". Il fastoso uso di synth e il consueto sposalizio di eleganza e quotidianità non nascondono la stanca nostalgia, forse il vero fattore di novità; la sua voce è profonda come mai, ma anche pervasa da una senilità intristente.
Blue Swing - Greatest Hits (Sony, 2008) è l'ennesima raccolta (su doppio Cd), stavolta più essenziale di Wonderful.
Nel giugno 2009 Conte torna, a quasi dieci anni da Razmataz, all'arte multimediale. Stavolta collabora con il giovane videoartista Valerio Berruti (come lui piemontese), in concomitanza della 53ma edizione della Biennale d'Arte di Venezia, nella realizzazione della sonorizzazione de "La figlia di Isacco" - mediometraggio animato esposto presso il Padiglione Italia - una lunga piece per piano, violino e sax.
A soli due anni da Psiche il bardo torna per l'ennesima volta alla carica a suon di vaudeville, onomatopee e prestiti linguistici con Nelson, un disco-stereotipo che però - nel bene e nel male - riesce a suonare contagioso ne “L’orchestrina”, e che - a parte elegie pianistiche, danze afrocubane e nuove imbarazzanti esperienze elettroniche, annovera l'ultimo anello dei suoi gioielli melodici, “Clown”, e specialmente gli esperimenti di collage di voci e percussioni macabre di "Sotto la luna bruna". E' un disco per chi si accontenta, una collezione che nei momenti migliori contrappunta in pompa magna, o si compiace con garbo; il “Novecento” del nuovo corso. Primo albo dalla scomparsa del produttore storico Renzo Fantini (cui è dedicato).
http://www.ondarock.it/italia/paoloconte.htm
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