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venerdì 7 maggio 2010

Tommaso Di Francesco


La Poesia italiana del Secondo Novecento - The italian Poetry of the second half of the 20th century

Tommaso Di Francesco



E' nato a Roma dove vive e lavora. E' redattore di esteri del quotidiano Il Manifesto. Suoi versi sono inseriti in riviste e antologie in Italia (a partire dal 1968, su Nuovi Argomenti), Francia e Stati uniti. Tra i libri di poesia ha pubblicato: Cliniche, ed. Crocetti (Milano, 1987) con una introduzione di Franco Fortini; Tuffatori, ed. Crocetti (Milano, 1992), con una lettera in versi di Gianni D'Elia; Incorpora testo, poemi in versi e in prosa, con una introduzione di Pietro Cataldi, ed. Piero Manni (Lecce, 1994); il poema Il buio della specie (Quaderno slavo), ed Piero Manni (Lecce 199). Ha curato le antologie: Veleno, antologia della poesia satirica contemporanea italiana, ed. Savelli (Roma 1980); in collaborazione con il poeta Antonio Ricci, Elenca, poesie di elenchi, antologia di testi elencatori, ed. Valore d'Uso (Roma 1982); e con Pino Blasone, La terra più amata, antologia della poesia palestinese, ed. ManifestoLibri (Roma 1988). Tra i libri in prosa ha pubblicato il libro di racconti Doppio deserto, ed. PellicanoLibri (Roma 1985), con una prefazione di Paolo Volponi, e due romanzi, Il giovane Mitchum, ed. Il Lavoro Editoriale (Ancona, 1988), e Hotel Abisso, ed. Mancosu (Roma, 1994). Ha scritto il dramma radiofonico Lettera da Tirana (1998).



Bibliografia critica essenziale

Nell'edizione di Trobar, del 1984 (Barbablù Edizioni, Siena) poemetto, poi inserito in "Cliniche" che attraversa e rivisita la poesia trobadorica provenzale, Roberto Roversi scrisse: "...e a me leggendo è venuto in mente un saggio acuto di Angelo Monteverdi, in cui notava che gli ottimi fra i predanteschi, e comunque salvatisi dalle acque del tempo e arrivati fino a noi, se scrivevano d'amore usavano il linguaggio 'piano' italiano, se scrivevano di guerra (del mondo, del potere, del re) usavano il provenzale, che era una lingua imparata (anche se, nel trobar, imperante). Di Francesco con la sua poesia può quindi suggerire questa considerazione: se non sia in atto, più generalmente, una migrazione linguistica (rovesciata rispetto alla annotazione di Monteverdi) che trasferisce il linguaggio del cuore in strutture chiuse e scure per cercare di recuperarne i palpiti consumati dall'usura di secoli di bellissimo esercizio e servizio...".

Sul clima generale della scrittura di Di Francesco, già Paolo Volponi, introducendo i racconti di Doppio deserto (PellicanoLibri,, 1985), notava: "La sua è scrittura come clima, energia, sostegno e quindi metabolismo, che trasforma per il calore e le peristalsi dei suoi organi, assume e filtra...La lettura è difficile, densa, come rarefatta, piegata da un andamento ossessivo, non transitabile senza sospensioni e avvertenze per la sottigliezza sopra larghi vuoti: interrotta e deviata da riferimenti indecifrabili. Bisogna allora aspettare che la scrittura propaghi e dal suo sfinirsi emerga un cerchio di associazioni e consonanze".

Franco Fortini, introducendo Cliniche (Crocetti, 1987), scriveva: "Ma di che ci parlano queste poesie? Dico della materia, nel senso di argomento, vicenda e anche in quello di sostanza greve e talvolta purulenta; tanto più che se a fatti figurativi può essere paragonata è proprio all'arte 'materica' di macchie, manifesti strappati, bitumi, arsioni...La sconnessione o sovrapposizione di strati ol oro incastro, vuol esser figura di un mondo di relazione e di linguaggio che è percorso da flussi contraddittori e che, invece di comporsi in una coscienza unificatrice, ha solo un timo, anzi un appetito ritmico Infatti la maggior parte di queste poesie può esser letta velocemente in modo da accrescere, non da diminuire, gli effetti di sovrapposizione; che non sono quindi ritardanti, ma acceleranti. L'universo di 'cliniche', sì, e di ospedali psichiatrici e di sadismi, con uno sfondo di città facilmente identificabile (Bisanzio)...Questo poeta ha bisogno di fisicità, è astratto o action painting solo in apparenza....A questo punto, la cronaca e la geografia dei fieri versi, rattratti, scabri, dei Cinque quintetti e della loro splendida conclusione nel nome di Lu Xun; i Cinque quintetti, ossia lo spazio e le realtà 'pratiche' della Cina, luogo non celeste né infernale, ma mensurabile a forza di economia politica e di storia, fanno opposizione alle illusioni liriche e ne viene una figura compiuta che, in qualche modo recuperando una situazione degli inizi, costringe il poeta a non tendersi fra Prenestino e Provenza, fra il suo lavoro di scritture dell'oggi e il mondo miceneo, ma a guardare a fratture nostre contemporanee che, prodigiosamente, somigliano a quelle che da sempre egli aveva avvertite nel cuore della sintassi e del lessico".

Intorno alla poetica contenuta in Cliniche, Antonio Porta, recensendo il libro sulla Talpa settimanale del Manifesto, il.....1987, scriveva: "Allora viene voglia di tornare al citatissimo ma, sospetto, poco amato, perché poco assimilato, Roman Jakobson a quelle righe del suo saggio del 1932 intitolato Che cos'è la poesia, dove scrive: 'Come la funzione poetica organizza e governa l'opera poetica, senza necessariamente emergere e saltare agli occhi, così anche l'opera poetica nel complesso dei valori sociali non spicca, non prevale sugli altri valori, ma ciò nonostante è un'organizzazione fondamentale e decisiva dell'ideologia. Appunto la poesia preserva dall'automatismo e dalla ruggine la nostra formula di amore e odio, di rivolta e riconciliazione, di fede e negazione'. Credo che Tommaso Di Francesco, depurato dei tributi generazionali, possa aderire, anzi abbia sostanzialmente aderito, alle formulazioni cos' nette e così trasparenti di Jakobson...".

E Gianni D'Elia, su "Rinascita" del 16 maggio 1987, annotava intorno a Cliniche: "Tommaso Di Francesco ci aiuta a capire meglio il 'da dove' e il 'verso dove' del fare poetico oggi...Le nove sezioni in cui si articola il libro, fanno intendere infatti un'officina dura e necessaria, in un costante attraversamento dello scrivere inteso come resistenza e continua reinvenzione, del sentimento ossessivo, del 'pensiero dominante' e delle forme; dall'invettiva al ragionamento, dal poemetto alla lirica seriale...".

Ancora Franco Fortini, recensendo Tuffatori (Crocetti, 1992) sul Manifesto del 22 maggio 1992, scriveva: "La poesia, si sa, non muore mai: ma quella che scriviamo e leggiamo somiglia sempre più spesso ad un omaggio floreale alla sua memoria, a un rimorso imbarazzato. Chi in questi versi di Di Francesco dice 'io' è tutto balzi rabbiosi e contenuti. Mi fanno pensare alla scena del primo film dal Dottor Jekill quando Mr. Hyde è in un palchetto di cabaret e, belva umana, volgendo gli sguardi ora alle ballerine ora alla platea, si trattiene a fatica dal balzare sul proscenio per aggredirle. Violenza che si svolge anche in immobilità e allucinazione. Il brutalismo di cui discorro, da Polifemo metropolitano, è però di continuo come perforato e percorso da soffi luminosi e freschi, da accenni melodici presto soffocati o derisi. C'è la volontà di costruire sequenze, storie, vicende: come nella serie sul canto della Callas ('Medea'). Anche quella di ventidue composizioni intitolata Limbo è una forte incatenatura, tenuta su da ricorrenze iconiche (oggetti, al plurale; pezzi di paesaggio) ma soprattutto da quello che è il massimo segno di autenticità di Di Francesco: la scansione degli accenti, il martellìo sempre sicurissimo".

Nelle "Pagine sparse" sul secondo Programma radiofonico Rai, Paolo Ruffilli commentava: "Quella di Tommaso Di Francesco dei Tuffatori è una poesia dell'intelligenza, certamente, ma che non è per nulla spoglia del riscontro che si dice solitamente umano, emozionale: anzi che, per contrasto, in forza inversamente proporzionale, fa sprigionare dalle sue limate superfici, laccate d'ironia, un'ansia assoluta di partecipazione e di complicità rispetto al mondo e alla sorte degli uomini". E ancora Luca Canali sul saggio "La dismisura" (ed. Bompiani, 1992), annotava tre voci nuove nella poesia italiana: Tommaso Di Francesco, Ermanno Krumm e Franco Marcoaldi, e scriveva: "Tommaso Di Francesco (Tuffatori): forte e cupa concentrazione emotiva, tensione ideale espressa in ellissi sintattiche, bruschi arresti, improvvise volate, spesso su allucinati sfondi urbani.

E il 27 ottobre del 1994, Filippo La Porta, parlando di Incorpora testo (Piero Manni Ed. 1994), diceva, sulla Talpa Libri del Manifesto: "...con interrogazione inesausta che però non rinuncia al 'canto', ecco Tommaso Di Francesco: qui non bastano compassione (dolente) e solidarietà (attiva): occorre immaginare dentro di sé e dentro la propria esistenza (per quanto protetta) i 'punti di sutura', dove ci si ostina a compiere gesti della vita quotidiana, dove si aiuta il mondo a ricominciare, pur in assenza di ogni speranza". Sempre su Incorpora testo, Gianni D'Elia, sulla Talpa Libri di giovedì 28 aprile 1994, ha scritto: "Come suggerisce l'acuta prefazione di Pietro Cataldi, lo specifico di questa raccolta di poesie è il rovello della comunicazione, e cioè di come la poesia e la vita entrino ed escano dai media...L'allegoria è precisa: corpi e vite, messaggi e linguaggi diversi, lirica e cronaca, dimensione pubblica e privata, tutto appare reciprocamente incluso ed escluso nel contesto dell'equivalenza generale delle merci e delle vite contemporanee. Non c'è niente di più difficile oggi, in poesia, che mettere a confronto il verso e la merce. Eppure in queste pagine che allineano sei nuclei lirici e narrativi, il marxismo di partenza e il giudizio d'intenzione non annullano il sentire, e anzi fanno dell'impoetico sentimentale la propria bandiera".

Sull'"Espresso" del 20 maggio 1999, Enzo Siciliano ha scritto sul poema Il buio della specie, (quaderno slavo) (Piero Manni ed. 1999): "Tommaso Di Francesco, un poeta che lavora come inviato al Manifesto, che ha seguito le 'guerre serbe' degli ultimi anni e, accanto ai servizi per il suo giornale, ha tenuto 'un quaderno slavo'...ci mette davanti una realtà che il tempo sembra non voler o non poter scontare. Così, gli equivoci, i dolori si sono a tal punto addensati che la guerra, esplosa ormai nel cuore dell'Europa, e sui quei luoghi, è diventata un destino necessitante e necessitato. Volponi Fortini, sono i nomi che affiorano come esempi. A me sembra che Di Francesco tenga in vita lo stilismo realista, il pathos morale di Volponi: materialità linguistica e, per contenuto, i risultati di sofferenza che 'la merce' della modernità produce". E sul "Corriere della Sera" di mercoledì 10 marzo 1999, anche Erri De Luca, ha ricordato, recensendo Il buio della specie (quaderno slavo) in un articolo intitolato "Di Francesco canta l'ultima guerra d'Europa. Fra le schegge di Bosnia": "Di Francesco, tra i pochi assidui dell'Est ha perlustrato qui i campi esplosi, piuttosto che gli elisi, più consoni ai poeti"
dalla raccolta Cliniche, poesie e poemetti, introduzione di Franco Fortini (Crocetti Editore, 1987)

Vorrei una tregua tra gli uomini

Si discute di una mia qualche

vecchiezza, non dell'anno

che gira e il tempo volta,

ma maturo nel pozzo e secco

in fondo spezzato, terracotta

è il cuore, in due e mille

frantumi dell'anfora latina.

Allora vorrei una tregua

fra gli uomini, vicendevole,

quando la luce avviene urlata

come sangue versato in padiglioni.



http://www.italian-poetry.org/DiFrancesco.htm

http://www.italian-poetry.org/index_principale.htm

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