Giovanni Pascoli
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« Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro Giosuè Carducci, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra [...] »
(G. Pascoli - da Il fanciullino)
Giovanni Antonio Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta italiano, una figura della letteratura italiana di fine Ottocento.
Pascoli, insieme a D'Annunzio, rappresenta, malgrado la sua matrice positivistica (ravvisabile nell'ossessiva precisione della nomeclatura botanica e ornitologica nei suoi versi), il maggior poeta decadente italiano. Dai principi letterari del poeta, esposti nel suo Fanciullino (1897), emerge una concezione essenzialmente socialista della società, un socialismo umanitario e utopico che misconosce ogni lotta di classe affidando alla poesia la missione di diffondere amore e fratellanza. Coerentemente al suo pensiero decadente, Pascoli manifesta tendenze spiritualistiche e idealistiche, tipiche della cultura di fine secolo segnata dal progressivo esaurirsi del positivismo. Gli stessi lutti familiari avranno modo di influenzare pesantemente, fino all'ossessione, il pensiero dell'autore: il matrimonio della sorella Ida nel 1895 verrà considerato un gesto di tradimento che lo porterà a serie reazioni depressive e patologiche.
Biografia
Per pochi scrittori come per Pascoli le vicende della prima giovinezza furono tanto determinanti nello sviluppo creativo della maturità: sembra quasi impossibile comprendere il vero significato di gran parte - e sicuramente la più importante - della sua produzione poetica, se si ignorano i dolorosi e tormentosi presupposti biografici e psicologici che egli stesso riorganizzò per tutta la vita, in modo ossessivo, come sistema semantico di base del proprio mondo.
Anni giovanili
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, in una famiglia benestante, quarto dei dieci figli di Ruggero Pascoli (due morti molto piccoli), amministratore di una tenuta della famiglia Torlonia, e di Caterina Allocatelli Vincenzi.
Il 10 agosto 1867, quando Giovanni aveva 12 anni, il padre Ruggero, amministratore di una tenuta dei principi Torlonia, venne assassinato con una fucilata mentre sul proprio calesse tornava a casa da Cesena, e le ragioni del delitto, forse di natura politica o forse dovute a contrasti di lavoro, e i responsabili rimasero per sempre oscuri, nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull'identità dell'assassino, come traspare evidentemente nella poesia La cavallina storna.
Il trauma lasciò segni profondi nella vita del poeta. La famiglia cominciò dapprima a perdere gradualmente il proprio status economico e successivamente a subire una serie impressionante di altri lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la madre e la sorella Margherita, nel 1871 il fratello Luigi e nel 1876 il fratello maggiore Giacomo, che aveva tentato inutilmente di ricostituire il nucleo familiare.
Nella biografia lasciata a noi dalla sorella Mariù, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, il futuro poeta viene presentato come un ragazzo solido e vivace, il cui carattere non è stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell'impegno a terminare il liceo ed a cercare i mezzi per gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, dimostrato nel ricercare e perseguire l'assassino del padre.
I primi studi
Nel 1871, all'età di 16 anni e dopo la morte del fratello Luigi (per meningite il 19 ottobre dello stesso anno), Pascoli dovette lasciare il collegio Raffaello dei padri Scolopi di Urbino, e si trasferì a Rimini, per frequentare il liceo classico Giulio Cesare; giunse a Rimini assieme ai suoi sei fratelli: Giacomo (19 anni), Luigi (17), Raffaele (14), Giuseppe (cioè Alessandro, 12), Ida (8), Maria (6, chiamata affettuosamente Mariù).
«L'appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano», scrive Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una economia che appena consentiva il puro necessario».
Pascoli terminò infine gli studi liceali a Firenze.
L'università e l'impegno politico
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Grazie all'interessamento di un suo ex-professore, che gli fece ottenere una borsa di studio di 600 lire, che poi perse per aver partecipato ad una manifestazione studentesca, Pascoli si iscrisse all'Università di Bologna, dove ebbe come docente il poeta Giosuè Carducci, e diventò amico del poeta e critico Severino Ferrari.
Conosciuto Andrea Costa ed avvicinatosi a un movimento socialista-anarcoide, cominciò, nel 1877, a tenere comizi a Forlì e a Cesena. Durante una manifestazione più violenta del solito contro il governo per la condanna all'esponente anarchico Giovanni Passanante, Pascoli venne catturato dalle forze dell'ordine e fu portato nel carcere di Bologna nel 1879.
Dopo poco più di cento giorni, Pascoli esce di galera ed entra in una fase di depressione, nella quale più volte pensa al suicidio, decidendo di non riprendere gli studi. Si sente un fallito e deve essere ospitato dal fratello maggiore. Come poi scriverà in una lirica, in questo periodo sente le voci dei suoi cari defunti che lo incoraggiano e lo incitano a ricomciare gli studi per diventare sostegno per la famiglia.
La docenza
Dopo la laurea, conseguita nel 1882 con una tesi su Alceo, Pascoli intraprese la carriera di insegnante di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Qui volle vicino a sé le due sorelle minori Ida e Maria, con le quali tentò di ricostituire il primitivo nucleo familiare.
Il 22 settembre 1882 fu iniziato alla massoneria, presso la loggia "Rizzoli" di Bologna. Il testamento massonico autografo del Pascoli, a forma di triangolo (il triangolo è un simbolo massonico), è stato rinvenuto nel 2002[1].
Dal 1887 al 1895 insegnò a Livorno al liceo classico Niccolini-Palli. Intanto iniziò la collaborazione con la rivista Vita nuova, su cui uscirono le prime poesie di Myricae, raccolta che continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900.
Vinse inoltre per ben tredici volte la medaglia d'oro al Concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina.
Nel 1894 fu chiamato a Roma per collaborare con il Ministero della pubblica istruzione. Nella capitale pubblicò la prima versione dei Poemi conviviali (Gog e Magog), ed ebbe modo di conoscere e frequentare Gabriele D'Annunzio.
Il "nido" di Castelvecchio
Costretto dalla sua professione di docente universitario a lavorare in città (Bologna, Firenze e Messina, dove insegnò per alcuni anni all'Università e compose tra le sue più belle poesie, una su tutte: L'Aquilone), egli non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una "via di fuga" verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Tuttavia il punto di arrivo sarebbe stato sul versante appenninico opposto a quello da cui proveniva la sua famiglia.
Nel 1895 infatti si trasferì con la sorella gobba Maria in Garfagnana nel piccolo borgo arroccato di Caprona, presso Castelvecchio nel comune di Barga, in una casa che divenne la sua residenza stabile quando poté acquistarla col ricavato della vendita di alcune medaglie d'oro vinte nei concorsi. Per preservare quello che pareva essere un "nido familiare", Pascoli addirittura annullò l'imminente matrimonio con la cugina Imelde Morri, e mai accettò il matrimonio della sorella Ida, che considerò come tradimento.
Si può addirittura affermare che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dal suo mondo, che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l'unico grande tema, una specie di microcosmo chiuso su sé stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno che, però, rimase innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l'assassino di suo padre. Sull'ambiguo e tormentato rapporto con le sorelle - il "nido" familiare che ben presto divenne "tutto il mondo" della poesia di Pascoli - ha scritto parole di estrema chiarezza il poeta Mario Luzi:
« Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura. »
([M. Luzi, Giovanni Pascoli])
Gli ultimi anni
Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea e all'avvento del fascismo gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall'ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati.
Dal 1897 al 1903 insegna latino all'Università di Messina, ed in seguito a Pisa. In quegli anni pubblicò i volumi di analisi dantesca Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902).
Nel 1905 assume la cattedra di letteratura italiana all'Università di Bologna succedendo a Carducci. Qui ha allievi che saranno popi celebri, tra cui Aldo Garzanti.
Nel novembre 1911, durante la campagna di Libia, presso il teatro di Barga pronuncia il celebre discorso a favore dell'imperialismo La grande Proletaria si è mossa.
Il 6 aprile 1912, già malato di cirrosi epatica (a causa dell'abuso di alcool) muore a causa di un cancro al fegato a Bologna, all'età di cinquantasei anni. Viene sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio di Barga, dove sarà tumulata anche l'amata sorella Maria.
Il profilo letterario: la sua rivoluzione poetica
L'esperienza poetica pascoliana si inserisce, con tratti originalissimi, nel panorama del decadentismo europeo e segna in maniera indelebile la poesia italiana: essa affonda le radici in una visione pessimistica della vita in cui si riflette la scomparsa della fiducia, propria del Positivismo, e in una conoscenza in grado di spiegare compiutamente la realtà. Il mondo appare all'autore come un insieme misterioso e indecifrabile tanto che il poeta tende a rappresentare la realtà con una pennellata impressionistica che colga solo un determinato particolare del reale, non essendo possibile per l'autore avere una concreta visione d'insieme. Coerentemente con la visione decadente, il poeta si configura come un "veggente", mediatore di una conoscenza aurorale, in grado di spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile: nel Fanciullino Pascoli afferma quanto il poeta fanciullino sappia dare il nome alle cose, scoprendole nella loro freschezza originaria, in maniera immaginosa e alogica.
La formazione letteraria
La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873 - 1882). Allievo di Carducci, che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita. Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi ed i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana. Nel 1875 perse la borsa di studio e con essa l'unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione ed i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu l'unica breve parentesi politica della sua vita. Nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l'ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi sul poeta greco Alceo. A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario ed anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la Revue des deux Mondes, che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henri Fabre e Maurice Maeterlinck. Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia. Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.
Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta "filosofia dell'inconscio" del tedesco Karl Robert Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana. È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua. Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico. I Romantici, sulla scia di Giambattista Vico e di Rousseau, avevano paragonato l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro.
Verso gli anni '80 si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento. Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Wilde (1888), Maurice Maeterlinck (1909); o come il capolavoro di Carroll, Alice nel paese delle meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. O libri sull'infanzia, dall'intento moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot (1878), Il piccolo lord di F.H. Burnett (1886), Piccole donne di Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887). Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del Fanciullino, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso ed un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi. Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé.
La poesia come "nido" che protegge dal mondo
Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di tutte le cose; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo (che era l'esaltazione della ragione stessa e del progresso), approdando, come si è detto, al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma, appunto, solo apparentemente: in realtà c'è una connessione (a volte anche un po' forzata) tra i concetti ed il poeta spesso e volentieri è costretto a "voli vertiginosi" per mettere "in comunicazione" questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili cose": cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra. I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del secondo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.
Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899 scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino».[2].
In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana.
Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio vicino al borgo medievale di Barga, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte.
Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di Chiabrera.[senza fonte] La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da Pascoli - mescolanza di novenari, quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via - è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva. Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1911, i Poemi italici e i Poemi del Risorgimento, postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903). Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.
« Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali. »
(Dalla Prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)
Il poeta e il fanciullino
Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso così bene esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897. In tale scritto, Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell'inconscio di Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo:
dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto;
della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano.
Caratteristiche del fanciullino:
"Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella".
"Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".
Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa- effetto, ma INTUISCE.
"Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose".
Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo.
Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:
Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni;
Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale).
Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);
Coglie l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.
La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso. È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale; cioè la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi. Tuttavia, nel passo XI de "Il fanciullino", Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta Pascoli rifiuta:
il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime la proprie sensazioni.
il Romanticismo, dove il poeta fa di se stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.
La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo ed il poeta. Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli".
Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall'ostentata pateticità e dall'eccessiva ricerca dell'effetto commovente. D'altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito nell'impresa di far uscire la poesia italiana dall'eccessiva aulicità e retoricità non solo del Carducci e del Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D'Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un legame diretto con la poesia d'Oltralpe e di respiro europeo.
Opere
Elenco delle opere
1891 - Myricae (I edizione della fondamentale raccolta di versi)
1896 - Iugurtha (poemetto latino)
1897 - Il fanciullino (scritto pubblicato sulla rivista Il Marzocco)
1897 - Poemetti
1898 - Minerva oscura (studi danteschi)
1903
Canti di Castelvecchio (dedicati alla madre)
Myricae (edizione definitiva)
Miei scritti di varia umanità
1904
Primi poemetti
Poemi conviviali
1906
Odi e Inni
Canti di Castelvecchio (edizione definitiva)
Pensieri e discorsi
1909
Nuovi poemetti
Canzoni di re Enzio
1911-1912
Poemi italici
Poemi del Risorgimento
Carmina
La grande proletaria si è mossa
1912
Poesie varie (a cura della sorella Maria; ediz. accresciuta 1914)
Opere in latino
Presentate nel certamen poetico Hoeufftiano di Amsterdam:
Veianius. 1892 medaglia d'oro
Phidyle. 1894
Laureolus.1894
Castanea. 1896
Cena in Caudiano Nervae. 1896 medaglia d'oro
Iugurta. 1897
Centurio. 1902
Paedagogium. 1904
Fanum Apollinis. 1905
Rufius Crispinus 1907 medaglia d'oro
Ultima linea 1907
Ecloga XI sive Ovis Pecularis. 1909
Pomponia Graecina. 1910 medaglia d'oro
Fanum Vacunae. 1911
Thallusa 1912 medaglia d'oro
Altre opere
Hymnus in Romam. Anno ab Italia in libertatem vindicata quinquagesimo. Testo latino e traduzione italiana, Bononiae, N. Zanichelli, 1911
Hymnus in Taurinos. Testo latino e traduzione italiana, Bononiae, N. Zanichelli, 1911
Approfondimenti
Myricae
Per approfondire, vedi la voce Myricae.
Il libro Myricae è la prima vera e propria raccolta di poesie del Pascoli, nonché una delle più amate. Il titolo riprende una citazione di Virgilio all'inizio della IV Bucolica in cui il poeta latino proclama di innalzare il tono poetico poiché "non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici" (non omnes arbusta iuvant humilesque myricae). Pascoli invece propone "quadretti" di vita campestre in cui vengono evidenziati particolari, colori, luci, suoni i quali hanno natura ignota e misteriosa. Il libro crebbe per il numero delle poesie in esso raccolte. Nel 1891, data della sua prima edizione, il libro raccoglieva soltanto 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Nel 1903, la raccolta definitiva comprendeva 156 liriche del poeta. I componimenti sono dedicati al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi e alla vita contadina. Le myricae, le umili tamerici, diventano un simbolo delle tematiche del Pascoli ed evocano riflessioni profonde. La descrizione realistica cela un significato più ampio così che, dal mondo contadino si arriva poi ad un significato universale. La rappresentazione della vita nei campi e della condizione contadina è solo all'apparenza il messaggio che il poeta vuole trasmettere con le sue opere. In realtà questa frettolosa interpretazione della poetica pascoliana fa da scenario a stati d'animo come inquietudini ed emozioni. Il significato delle Myricae va quindi oltre l'apparenza. Nell'edizione del 1897 compare la poesia Novembre, mentre nelle successive compariranno anche altri componimenti come L'Assiuolo. Pascoli ha dedicato questa raccolta alla memoria di suo padre ("A Ruggero Pascoli, mio padre").
La produzione latina
Giovanni Pascoli fu anche autore di poesie in lingua latina e con esse vinse per ben tredici volte il Certamen Hoeufftianum, un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il poeta per tutta la sua vita: dai primi componimenti scritti sui banchi del collegio degli Scolopi di Urbino, fino a Thallusa, poemetto di cui il poeta seppe della vittoria solo sul letto di morte nel 1912. In particolare, l'anno 1892 fu insieme l'anno della sua prima premiazione con il poemetto Veianus e l'anno della stesura definitiva delle Myricae. Pascoli amava molto il latino, che può essere considerato la sua lingua del cuore: il poeta scriveva in latino, prendeva appunti in latino, spesso pensava in latino, trasponendo poi espressioni latine in italiano; la sorella Maria ricorda che dal suo letto di morte Pascoli parlò in latino, anche se la notizia è considerata dai più poco attendibile, dal momento che la sorella non conosceva questa lingua. Per lungo tempo la produzione latina pascoliana non ha ricevuto l'attenzione che merita, essendo stata erroneamente considerata quale un semplice esercizio del poeta. Il Pascoli in quegli anni non era infatti l'unico a cimentarsi nella poesia latina (un maestro di Pascoli vinse alcune edizioni del Certamen con poemetti dedicati alla locomotiva o alla luce), ma lo fece in maniera nuova e con risultati, poetici e linguistici, sorprendenti. L'attenzione verso questi componimenti si è accesa solo con la raccolta a cura di Gandiglio e poi con l'edizione tradotta, edita da Mondadori nel 1951 e curata da Manara Valgimigli. Tuttavia la produzione latina ha un significato fondamentale, essendo coerente con la poetica del Fanciullino, la cifra del pensiero pascoliano. In realtà, la poetica del Fanciullino è la confluenze di due differenti poetiche: la poetica della memoria e la poetica delle cose. Gran parte della poesia pascoliana nasce dalle memorie, dolci e tristi, della sua infanzia: "Ditelo voi […], se la poesia non è solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno! E dite voi, se il sogno più bello non è sempre quello in cui rivive ciò che è morto". Pascoli dunque intende fare rivivere ciò che è morto, attingendo non solo al proprio ricordo personale, bensì travalica la propria esperienza, descrivendo personaggi facenti parte anche dell'evo antico: infanzia e mondo antico sono le età nelle quali l'uomo vive o è vissuto più vicino ad una sorta di stato di natura. "Io sento nel cuore dolori antichissimi, pure ancor pungenti. Dove e quando ho provato tanti martori? Sofferto tante ingiustizie? Da quanti secoli vive al dolore l'anima mia? Ero io forse uno di quegli schiavi che giravano la macina al buio, affamati, con la museruola?". Contro la morte - delle lingue, degli uomini e delle epoche - il poeta si appella alla poesia: essa è la sola, la vera vittoria umana contro la morte. "L'uomo alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può". Ma da ciò non consegue di necessità l'uso del latino. Qui interviene l'altra e complementare poetica pascoliana: la poetica delle cose. "Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose". Ma questa aderenza alle cose ha una conseguenza linguistica di estrema importanza, ogni cosa deve parlare quanto più è possibile con la propria voce: gli esseri della natura con l'onomatopea, i contadini col vernacolo, gli emigranti con l'italo-americano, Re Enzio col bolognese del Duecento; i Romani, naturalmente, parleranno in latino. Dunque il bilinguismo di Pascoli in realtà è solo una faccia del suo plurilinguismo. Bisogna tenere conto anche di un altro elemento: il latino del Pascoli non è la lingua che abbiamo appreso a scuola. Questo è forse il secondo motivo per il quale la produzione latina pascoliana è stata per anni oggetto di scarso interesse: per poter leggere i suoi poemetti latini è necessario essere esperti non solo del latino in generale, ma anche del latino di Pascoli. Si è già fatto menzione del fatto che nello stesso periodo, e anche prima di lui, altri autori avevano scritto in latino; scrivere in latino per un moderno comporta due differenti e contrapposti rischi. L'autore che si cimenti in questa impresa potrebbe, da una parte, incappare nell'errore di esprimere una sensibilità moderna in una lingua classica, cadendo in un latino maccheronico; oppure potrebbe semplicemente imitare gli autori classici, senza apportare alcuna novità alla letteratura latina. Pascoli invece reinventa il latino, lo plasma, piega la lingua perché possa esprimere una sensibilità moderna, perché possa essere una lingua contemporanea. Se oggi noi parlassimo ancora latino, forse parleremmo il latino di Pascoli. (cfr. Alfonso Traina, Saggio sul latino del Pascoli, Pàtron). Numerosi sono i componimenti, in genere raggruppati in diverse raccolte secondo l'edizione del Gandiglio, tra le quali: Poemata Christiana, Liber de Poetis, Res Romanae, Odi et Hymni. Due sembrano essere i temi favoriti del poeta: Orazio, poeta della mediocritas, che Pascoli sentiva come suo alterego, e le madri orbate, cioè private del loro figlio (cfr. Thallusa, Pomponia Graecina, Rufius Crispinus). In quest'ultimo caso il poeta sembra come ribaltare la sua esperienza personale di orfano, privando invece le madri del loro ocellus ("occhietto", come Thallusa chiama il bambino). I Poemata Christiana sono da considerarsi il suo capolavoro in lingua latina. In essi Pascoli traccia attraverso i vari poemetti, tutti in esametri, la storia del Cristianesimo in Occidente: dal ritorno a Roma del centurione che assistette alla morte di Cristo sul Golgota (Centurio), alla penetrazione del Cristianesimo nella società romana, dapprima attraverso gli schiavi (Thallusa), poi attraverso la nobiltà romana (Pomponia Graecina), fino al tramonto del paganesimo (Fanum Apollinis).
Bibliografia
Antonio Piromalli, La poesia di Giovanni Pascoli, Pisa, Nistri Lischi, 1957
Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961
Gian Luigi Ruggio, Giovanni Pascoli: tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta (in appendice un'ampia antologia dei suoi versi migliori), Milano, Simonelli, 1998
Maria Santini, Candida Soror: tutto il racconto della vita di Mariù Pascoli la più adorata sorella del poeta della Cavalla storna, Milano, Simonelli, 2005
Alberto Arbasino, Genius Loci (1977), published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS) ISSN: 1476-9859. Previously published in Certi romanzi (Turin: Einaudi, 1977). artwork 2000-2004 by G. & F. Pedriali. [1]
Giovanni Pascoli, Le Petit Enfant trad. dall'italiano, introd. e annotato da Bertrand Levergeois (prima edizione francese del "Fanciullino" in Francia), Parigi, Michel de Maule, "L'Absolu Singulier", 2004
Cesare Garboli, Poesie e prose scelte di Giovanni Pascoli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2002.
Marinella Mazzanti, "I segreti del 'nido'. Le carte di Giovanni e Maria Pascoli a Castelvecchio", in Raffaella Castagnola (a c. di), Archivi letterari del '900, Firenze, Franco Cesati, 2000, pp. 99-104.
Carmelo Ciccia, Pascoli e gli uccelli, in Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007. ISBN 978-88-8101-435-4
Note
1.^ Il rinvenimento è opera dello storico Gian Luigi Ruggio, il documento fu acquistato dal Grande Oriente d'Italia nel giugno 2006 ad un'asta di manoscritti storici della casa Bloomsbury, e la notizia fu resa nota al grande pubblico per la prima volta ne “Il Corriere della Sera”, 22 giugno 2007, p.55
2.^ Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961, p. 616 n.2
Voci correlate
Accademia Pascoliana
Alfonso Traina
Augusto Vicinelli
Digitale purpurea
Ruggero Pascoli
Altri progetti
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Wikiquote contiene citazioni di o su Giovanni Pascoli
Collegamenti esterni
Sito ufficiale della Fondazione Giovanni Pascoli
Opere di Giovanni Pascoli, testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza
Casa Pascoli, sito ufficiale del Museo Casa Pascoli dedicato al poeta
Giovanni Pascoli su Marginalia
http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Pascoli
La cavalla storna - Giovanni Pascoli
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